Mario Baudino, La Stampa 24/11/2013, 24 novembre 2013
NEL LABORATORIO DI CERATI ALLE RIUNIONI DEL MERCOLEDÌ
Sabato prossimo la biblioteca di Dogliani, voluta da Giulio Einaudi, celebra i cinquant’anni. Ma gli «einaudiani» presenti alla tavola rotonda avranno un problema: come non parlare di Roberto Cerati in una simile occasione? E come parlarne? Morendo, l’uomo più riservato dell’editoria italiana ha lasciato la richiesta di evitare ogni forma di celebrazione, almeno fino al funerale e possibilmente anche dopo. Rispettare in pieno le sue ultime volontà non sarà facile, e forse neanche giusto. Perché Cerati è nella storia dell’editoria, ne rappresenta un momento apicale e fortunato: quello dell’editoria di cultura, degli editori-personaggio (come diceva uno di loro, Valentino Bompiani), di un idealismo che spesso trascurava anche i profitti, e qualche volta i bilanci, all’imperativo di fare libri in cui si credeva.
Cerati non ne fu il teorico, ma da direttore commerciale dell’Einaudi nei tempi in cui la casa dello Struzzo godeva di una supremazia culturale indiscussa seppe come diffondere al meglio quei libri per raggiungere e conservare un primato non certo economico. Il «San Francesco dei libri» - secondo una definizione divenuta proverbiale di Guido Davico Bonino - è stato per decenni il vero alter ego di Giulio Einaudi, sempre discretissimo, silenzioso in pubblico ma molto convincente, coi librai di tutta Italia, che a furia di girare in treno, in seconda classe, ebbe a conoscere forse uno per uno. Guido Davico Bonino lo ricorda ai celebri mercoledì, giorno in cui dirigenti e collaboratori autorevoli si scontravano anche furiosamente su titoli e proposte. «Se ne restava in seconda fila, mezzo nascosto in un angolo vicino alla finestra, e non apriva mai bocca - racconta - . Ascoltava, e annotava». La scena muta poteva trarre in inganno. «Interveniva al giovedì mattina, nella riunione più ristretta del comitato editoriale, dove si ratificavano le scelte. Sempre con molto pudore. Non gli ho mai sentito contestare un titolo, né in pubblico né in privato». In perfetta aderenza all’icona dello struzzo che rappresenta la casa editrice, «aveva uno stomaco da leone. Gli facevamo ingoiare qualsiasi cosa». La digeriva, e bene o male la vendeva. Anzi, qualche volta era lui a rilanciare: per esempio per la poesia, dove non voleva mai meno di 12 titoli l’anno; o sull’amatissimo teatro.
Roberto Cerati si era laureato con una tesi su Pirandello, e la passione non gli era mai passata. Come un personaggio di Pirandello, tutti lo ricordano allo stesso modo, ma con molte sfaccettature diverse. Alberto Papuzzi, per esempio (fu capo ufficio Stampa in via Biancamano dal ’78 all’84), è convinto che fosse la persona con più autorevolezza e persino potere, subito dopo Giulio Einaudi. Era anche molto diplomatico. «Ci fu un momento in cui si parlò, alla cosa teneva molto Franco Fortini, di una collana di poesia, ma in lingua originale, senza traduzione, solo con le note. Al seminario estivo di Rhêmes-Notre-Dame ne nacque una terribile litigata». Tornati dalla Val d’Aosta, Cerati chiese a Papuzzi di fare magari un salto a Milano e render visita a Fortini. Il poeta era furibondo, ma a poco a poco si addolcì, leggendo per ore e ore I fiori del male ad alta voce, e spiegando al capo ufficio stampa come la loro bellezza non si potesse tradurre. «Alla fine, era appagato. Ci lasciammo con grande cordialità, e del progetto non si parlò mai più».
Da direttore commerciale, più che da presidente onorario della casa editrice, quando ormai i tempi erano cambiati, Cerati è stato il teorico delle piccole ristampe, della necessità per un editore di vendere sempre tutto il catalogo, del porta a porta e del faccia a faccia. Figlio e interprete del suo tempo, non si rassegnava alla società dello spettacolo. «Il successo di De Crescenzo, propiziato dalle apparizioni in tv, lo sconvolse letteralmente - racconta Papuzzi -. Non poteva crederci. Né riusciva ad arrendersi, col cambiamento di formati dei periodici, al fatto che la nostra pubblicità finisse accanto, che so, a quella di un calzaturificio». E allora reagiva da par suo. «Mi suggeriva idee per la tv: per esempio, di mandarci Natalia Ginzburg. Certo, sarebbe stata molto ben accolta. Il problema era che ovviamente lei non ne voleva sapere». La sua idea di editoria non era più egemone, ma non era - non è - certo morta. Uno dei suoi amici è stato Enzo Bianchi, il priore di Bose, che l’Einaudi pubblica con grande successo anche commerciale. E a Bose, lui laico, finché le condizioni di salute glielo permisero, andava parecchie volte all’anno, e sempre per un lungo periodo in agosto.
Ricorda Carlo Carena, grande amico di lunga data, come avesse parlato in un’intervista delle sue origini da un villaggio agricolo piemontese, accostandole alla Dogliani di Giulio Einaudi. Il Piemonte di frontiera e il Piemonte profondo: «Ciò spiega molto del suo carattere e dei suoi atteggiamenti, l’ansia di raccogliere e la larghezza del seminare, la lontananza dalle vetrine e il lavoro nelle retrovie, la tenacia e l’ostinazione. Insegnamento non solo per gli addetti ai lavori».