Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  novembre 24 Domenica calendario

CHI STA SOFFIANDO SULLA MICCIA DEI BUS


LA MICCIA, per il momento, si è spenta. Dopo cinque giorni di sciopero gli autobus escono dalle rimesse. Dispiacerà a Grillo, dispiacerà all’estrema sinistra, dispiacerà perfino al “Giornale” della destra che ieri titolava sull’“Aria di rivolta”, ma gli autoferrotranvieri rinunciano a far da miccia dell’esplosione preconizzata da un così variegato fronte insurrezionale.

DOVEVA essere — ma stiamo attenti, non è detto che presto non si avveri da qualche altra parte — l’inizio di una sollevazione popolare estesa nei punti nevralgici della nazione proletaria. Contro chi? Contro le forze oscure annidate nel governo Letta, nel Pd, tra gli speculatori d’Oriente e nelle solite cancellerie europee: tutti pronti a replicare in Italia la spoliazione del patrimonio pubblico già perpetrata in Grecia. A vantaggio di chi? Dei privati, della casta politica e — perché no? — della solita Germania.
L’ora X di questa rivolta sociale avrebbe dovuto scoccare ieri mattina nel glorioso e vasto salone della Chiamata del Porto, affollato fino all’inverosimile dai 2400 lavoratori dell’Azienda municipale trasporti genovese. Poche ore prima, una busta contenente un proiettile calibro 45 e diretta a Livio Ravera, il presidente dell’Amt, è stata intercettata al centro di smistamento postale dell’aeroporto di Genova. Quella che si celebra sotto una gigantografia di Paride Batini, l’indimenticato leader dei portuali, affiancata dai ritratti di Lenin e di Palmiro Togliatti, è una vera assemblea popolare, lunga e drammatica. Sul lato opposto si riconoscono in effige il gran capo della Cgil, Giuseppe Di Vittorio, e l’operaio comunista Guido Rossa, assassinato nel 1979 dalle Brigate Rosse. La più classica iconografia della sinistra che fu.
Peccato che la maggioranza degli autoferrotranvieri protagonisti della vertenza che dovrebbe contagiare l’Italia, siano ormai iscritti a sindacati autonomi come la Faisa Cisal. Parlano della loro Amt come di un’azienda clientelare nella cui direzione il Pd genovese sistema figli e figliastri con lauti compensi. Si sono inferociti quando s’è cominciato a vociferare, sempre nel Pd, di cederne la gestione a Busitalia, controllata delle Ferrovie dello Stato, guidata, vedi il caso, da un top manager di matrice Cgil. Esattamente quel che Matteo Renzi ha fatto con l’Ataf di Firenze, dove immancabili sono emersi subito 170 esuberi. Lo si dice sottovoce, ma a Genova tutti sanno che gli esuberi dell’Amt, che registra di anno in anno una perdita cronica, sarebbero ben di più: fra i 350 e i 400.
Ecco spiegato il finto equivoco da cui è scaturito lo scontro frontale tra i dipendenti Amt e il sindaco rosso Marco Doria: loro sapevano benissimo che Doria è contrario alla privatizzazione, almeno fino al rinnovo del contratto di servizio previsto nel 2015, ma vuole avviare un risanamento doloroso che considera inevitabile; Doria sa altrettanto bene che ai sindacati non basta mantenere la proprietà pubblica dell’Amt, perché sono i sacrifici richiesti a far più male.
Così, anche giocando sull’equivoco, la vertenza Amt di Genova è stata elevata a drammatico simbolo di una nazione costretta dai suoi vincoli di bilancio a svendere il patrimonio pubblico, trasformando in precari dei lavoratori garantiti e peggiorando la qualità del trasporto pubblico municipale.
Se ieri mattina la votazione sull’accordo raggiunto in extremis con il Comune e la Regione è finita a male parole, lacrime e spintoni, lo si deve a una diffidenza reciproca esasperata da decenni di malagestione. Neanche i sindacalisti possono considerarsi al di sopra di ogni sospetto.
La più parte dei lavoratori stremati che si susseguono al microfono chiarisce: «Noi abbiamo fermato gli autobus per difendere il posto di lavoro e mantenere la proprietà pubblica dell’azienda. Non per fare la rivoluzione». «Mettiamo che oggi si blocchino i treni e domani lo stadio Marassi, ma poi? Davvero credete che i genovesi continueranno a solidarizzare e che i ferrotranvieri delle altre città ci verranno dietro?».
Sono padri di famiglia abituati a un reddito sicuro, quasi tutti genovesi, molti parlano in dialetto. Non sono né i portuali né la classe operaia dei Cantieri. In loro è assente la memoria storica del sindacalismo confederale, semmai esprimono l’incubo della città depredata e dello sfascio dei servizi pubblici: «Scusate se arrivo solo ora, ma alle 8 mi hanno telefonato dall’ospedale di portare le medicine per mia madre, che loro non ne hanno più».
Solo una minoranza vive l’ebbrezza del progetto di sollevazione popolare: «Ci abbiamo messo cinque giorni di sciopero, le brache e la camicia, se teniamo duro ci portiamo dietro l’Italia intera, non possiamo mollare per un pezzo di carta...». Applausi, ma senza troppa convinzione. La rivoluzione può attendere. Lo si capisce dalla sufficienza con cui è stata vissuta l’incursione di Beppe Grillo nel corteo del giorno prima. Racconta Roberto Mainardi: «Quando l’ho incontrato in Corvetto, da genovese a genovese ho detto a Grillo che arrivare in piazza al quarto giorno invece che arrischiarsi con noi fin dall’inizio mi sembrava una marchetta. Con ciò, devo riconoscere che lui è l’unico politico che può farsi vedere per strada. Io ho votato Pd ma oggi sono deluso; anche il sindaco Doria, sì, è onesto, ma si lascia tenere per le palle dagli affaristi».
Quando si sono separati per votare, i favorevoli da una parte e i contrari dall’altra, e la Chiamata del Porto ha vibrato di quella lacerazione intestina, a tutti pur nella rabbia è apparso chiaro che vinceva il compromesso e che i rivoluzionari dovranno cercarsi altrove la loro avanguardia.
Non mi riferisco tanto alla destra, del tutto fuori ruolo nel sostenere uno sciopero selvaggio pur di rovesciare il tavolo degli equilibri governativi. Semmai è Beppe Grillo che confidava di prolungare la tensione in vista dell’appuntamento genovese di domenica prossima, raduno nazionale del V-Day in piazza Vittoria, piattaforma di lancio della campagna elettorale per le europee. Grillo arringava i manifestanti interpretando da par suo lo stato d’animo di una Genova timorosa di essere spogliata del suo patrimonio di aziende di Stato, turbata dal fantasma della bancarotta: «Letta non ha il diritto di vendere agli stranieri l’eredità dei nostri padri! Basta con i tedeschi che vengono e si comprano le ferrovie, i porti, l’alimentare...». Roba forte, nel tentativo di coinvolgere altre realtà sindacali — proprio lui, che i sindacati li detesta — sulla parola d’ordine del No alle privatizzazioni del governo Letta.
Ma è nelle critiche piovute da sinistra all’eccessiva timidezza del sindaco rosso, Marco Doria, che si riscontra la medesima attesa palingenetica: «Ci hai deluso, dovevi metterti alla testa degli scioperanti e fare di Genova l’avamposto di una grande controffensiva operaia», gli ha mandato a dire dalla prima pagina de “Il Manifesto” lo storico Marco Revelli.
Doria, anche lui stremato dopo una notte di trattative, scuote la testa: «Fare il sindaco Masaniello, il capopopolo degli arrabbiati? Troppo facile. Io posso mettermi alla testa delle lotte se ho una robusta piattaforma programmatica. Una sollevazione generale con epicentro Genova, senza sapere dove andare, è un’ipotesi non del tutto scongiurata, vista la gravità dell’emergenza finanziaria, ma non posso augurarmela. Preferisco ricoprire con dignità un ruolo istituzionale, e pazienza se mi dicono che scarseggio di leadership».
Proprio così, anche Piero Ottone lamenta che Genova sia sprovvista di un uomo forte al timone nel mezzo della tempesta. Replica Doria: «Che follia questa trama da film Mission Impossible... Come se i muscoli del sindaco potessero spezzare i vincoli del Fiscal Compact. È la degenerazione personalistica della politica italiana, l’eccesso di fiducia nel ruolo del leader solitario. Un’illusione: le persone si devono attaccare a qualcuno o devono attaccare qualcuno, ma così non si va da nessuna parte ».
Resta il fatto che la giunta di sinistra ora fa i conti con un senso comune che liquida il Pd come sinonimo di potere, primo artefice del fallimento. Genova ingrigita dalla demografia ama rappresentarsi ancora come la città rivoluzionaria capace di passare dal mugugno al boato minaccioso. Soffre la sindrome da spoliazione, accentuata dalle rivelazioni sul malcostume dei suoi uomini di potere che hanno abusato della banca Carige per dispensare crediti facili agli amici degli amici. Ma se il mugugno potesse trasformarsi in progetto politico, allora il suo sindaco ideale sarebbe proprio Beppe Grillo: ipotesi che per primo lo scapigliato benestante di Sant’Ilario vivrebbe come una sciagura. Anche se, per via dell’accento e delle raffiche di “vaffanculo”, più volte nel corso dell’assemblea della Chiamata chiudendo gli occhi sembrava di ascoltare proprio lui.
L’accordo raggiunto in extremis nella notte per mantenere la proprietà pubblica dell’Amt ha stoppato le tentazioni oltranziste. Ma la tensione rimane alta. Non a caso un uomo di buon fiuto come Matteo Renzi ha deciso di rinviare l’incontro pubblico programmato col suo sostenitore Claudio Burlando, presidente della Regione Liguria, proprio nel bel mezzo dello sciopero. La parola privatizzazioni, in quel di Genova, resterà a lungo tabù.