Giampaolo Visetti, la Repubblica 24/11/2013, 24 novembre 2013
A CASA DI MAO
Nel reliquiario di Mao Zedong ogni oggetto è sacro. Le sue sigarette non fumate, un thermos per il tè, la boule azzurra che gli riscaldava lo stomaco, il lucido per le scarpe, la racchetta verde da ping-pong, i suoi mutandoni di lana. Due piani di reperti esposti nella penombra, a temperatura costante, illuminati e protetti come capolavori. La colonna dei pellegrini scorre in silenzio davanti alle vetrine che esibiscono “i calzini del Presidente Mao”, il suo pettine e le scatole dei biscotti di cui aveva bisogno non per la gola, ma “perché lavorava sempre”. Alcuni anziani, al cospetto di un pigiama rattoppato, non trattengono le lacrime e qualche donna tocca un busto presidenziale mormorando parole di preghiera perché il figlio recuperi salute e prosperità. Il funzionario che mi guida nel museo del Grande Timoniere improvvisamente si ferma davanti al celeste letto, immenso e in pendenza per “ospitare le montagne di libri che divorava di notte”. Respira a fondo e intona di colpo L’Oriente è rosso. Gli operai impegnati a ritinteggiare la sale, cambiare le lampadine, scrostare i vetri e sostituire i bambù ingialliti, attaccano l’inno con lui. C’è un certo odore di mobili in decomposizione, ma sulle pareti scorrono immagini ad alta definizione che ritraggono il Presidente Mao mentre “nuota sorridente in un lago dalle acque gelide”. L’uomo che ha fondato la Repubblica Popolare Cinese, cambiando il destino dell’umanità, nacque centovent’anni fa e nel suo villaggio resta un dio immortale. Tanto più eterno adesso, alla vigilia dell’anniversario: «Ventisei dicembre 1893 — si affretta a puntualizzare la guida al termine della sua baritonale esibizione di maoismo spontaneo — il giorno in cui è venuto al mondo il bambino che i genitori chiamarono profeticamente “Ze-dong”, ossia “splendere sull’Oriente”».
Shaoshan, cinquanta chilometri a sud di Changsha, capoluogo dello Hunan, contava allora quattrocento famiglie di contadini e le sue colline erano infestate dalle tigri. Si aravano le risaie con i bufali e la vita, sotto l’agonizzante dinastia Qing, scorreva come nel Medioevo: la notizia della morte dell’imperatore giunse nella fattoria dei Mao casualmente, due anni dopo il decesso.
L’ex borgo conta oggi centoventimila abitanti, di cui quarantamila si chiamano Mao, e quasi nessuno coltiva la terra. È stato ribattezzato “Città della Memoria Rossa” e qui tutti vivono grazie al culto di Stato per il padre del comunismo cinese. Un gigantesco manifesto affisso in piazza Mao Zedong, proprio davanti a una statua di Mao alta sei metri, ricorda che “il nostro eroe è morto prematuramente il 10 settembre 1976, all’età di quasi 83 anni, ma noi ameremo per sempre il Presidente Mao”. Un simile trasporto non permette che qualcuno faccia la fame e dopo centovent’anni il Grande Timoniere, mummificato nella piazza Tienanmen a Pechino, può dire di aver reso ricchi i suoi compaesani. A Shaoshan, per onorare la sua casa natale, arrivano cinque milioni di cinesi all’anno. Solo in dicembre, per la ricorrenza, se ne attendono altri due milioni. Assolti i lunghi doveri di fede, tutti entrano in un ristorante per mangiare “maiale stufato alla Mao” e “tagliolini della felicità”, acquistano una copia del Libretto Rosso e una piccola effige magnetica con il volto del divino per il cruscotto dell’auto, a benedizione dei viaggiatori. Ma soprattutto tutti sono invitati dalle autorità ad assistere allo spettacolo che mette in scena infanzia e giovinezza del Presidente Mao e a trascorrere una notte in albergo. Lo show, dopo decenni di sempre più stanche correzioni politiche, è in via di riadeguamento alla sensibilità dei nuovi leader e alle imminenti celebrazioni. Due ore di fiamme, battaglie, vittorie, sangue, fiori e bandiere rosse, chiuse dai fuochi d’artificio del trionfo. Il messaggio è semplice: le forze occidentali erano il Male e Mao, grazie al suo coraggio, ha salvato il popolo cinese dalle belve del Novecento, facendo prevalere il Bene. Buona parte del pubblico, al termine di una giornata sfiancante nel santuario maoista, crolla in un sonno ostinato, che resiste anche ai fragorosi inni rivoluzionari. Quando cala il sipario però sono tutti doverosamente commossi.
L’albergo Shengdi, storico rifugio dei dirigenti spediti dal partito a omaggiare il padre della nazione, è invece un mito a sé. Sconfinato, in marmo bianco, imbottito di moquette rossa e gialla. Troni e tavoli fingono di essere d’oro, come le teste di leone e i putti trombettieri appesi alle pareti. Nelle sale risuona la colonna sonora del film Titanic e le cameriere accorrono per mostrare i wc giapponesi riscaldati e i soffitti affrescati delle stanze, che illustrano l’epopea del Presidente Mao come fossero le scene della vita di Cristo narrata dal Vangelo. Non si può dire che la struttura, ai piedi della Montagna del Drago, esalti la frugalità delle origini, messaggio essenziale affidato a Shaoshan dai successori del “padre di tutti noi”. «L’hotel è vuoto — avverte la cameriera incaricata di sorvegliare il mio piano — Duecento camere, lei è l’unico cliente. Sono scomparsi tutti, dopo la caccia scatenata da Xi Jiping contro corrotti, lussi e stravaganze. Pensi: anche il gala organizzato per l’anniversario del Presidente Mao è stato cancellato». Lo spreco di Stato per non smettere di venerare la sola figura tuttora capace di tenere uniti i cinesi è in effetti un problema ideologicamente imbarazzante. A quasi quarant’anni dalla sua scomparsa, nella Cina iperconsumista che l’ultimo Plenum ha appena aperto al “mercato decisivo”, che è l’opposto di quella teorizzata dal Grande Timoniere, il partito scopre di essere ancora Mao-dipendente. Altro che riforme: il potere dei “prìncipi rossi” discende dal suo ricordo, che sostiene la società, lo Stato, il regime, tutto. Nessuno, da Deng Xiaoping a Jiang Zemin e Hu Jintao e ora a Xi Jinping, ha avuto il coraggio di mettere sostanzialmente in discussione il dio dei cinesi e la nazione si scopre ancora prigioniera del dittatore da cui non ha saputo affrancarsi, nemmeno dopo la sua morte. Discutere in modo aperto di Mao equivarrebbe a parlare liberamente del partito-Stato, permettere la ricerca della verità: come imprimere un sigillo sulla fine del regime. Pechino deve così alimentare la fiamma della sola fede ammessa: chi si astiene resta un traditore. Alimentare il culto di massa, dopo centovent’anni, è però tremendamente dispendioso e il popolo degli ex compagni, pronti a piangere davanti alle “scarpe bucate del Presidente Mao”, è meno propenso ad assolvere i costi di una propaganda che, assieme al padre, promette di consegnare all’eternità anche i figli, auto-proclamati successori.
Per la prima volta, alla vigilia del sacro anniversario, la Cina si indigna dunque per i 2,5 miliardi di dollari stanziati dal governo per i festeggiamenti del 26 dicembre a Shaoshan. Una bestemmia: condannare le energie profuse per «dire collettivamente grazie al Presidente Mao». Eppure è così, la nuova classe media dei consumatori urbanizzati alza la voce contro i nostalgici naziona-listi dell’antico mondo rurale e si capisce perché nel villaggio natìo, investito della titanica missione di «gestire sedici piani patriottici» senza smarrire uno yuan, non si vedono volti rilassati. Mao Zedong costa, la ri-maoizzazione succede alla de-maoizzazione, e il partito rischia. Bisogna ammettere che, nell’eccesso obbligato di zelo apologetico, si è esagerato. A Changsha, dove “l’ultimo imperatore” studiò e insegnò nell’Accademia Yuelu, una sua testa di granito alta trentadue metri domina il fiume Xiang e funge da sfondo per le foto degli sposi. Di qui parte l’autostrada personale di Mao, che in un’ora conduce direttamente alla fattoria dove è nato. L’asfalto è tirato come un velluto e centinaia di operai rabboccano a mano impercettibili buche. Il percorso è deserto e l’autista del pullman non può smettere di suonare per disperdere stormi di gazze che riposano sulla corsia di sorpasso. La “Città della Memoria Rossa” invece è in fermento. Ordini dall’alto: centinaia di botteghe di souvenir rinnovano le fotografie dei vecchi leader, gli album con le poesie del Presidente Mao e quelli con la sua “struggente calligrafia”. Su una spianata di cantieri si costruiscono il nuovo “Museo di Mao e della Cina”, alcuni alberghi, una nuova stazione per i treni ad alta velocità, un centro commerciale «a tema rivoluzionario», cinema e teatri per replicare «un’adolescenza leggendaria». Le impalcature nascondono anche la casa degli avi dei Mao, eretta nel 1763 e trasformata in scuola per la seconda moglie del giovane Zedong, come i venerati “bagni sovietici” color smeraldo del bunker anti-atomico segreto, scavato nel 1960 sotto il dosso dove è sepolto suo nonno. Dietro la statua del centenario, voluta da Jiang Zemin nel 1993, si cambiano i fiori, si potano i sessantatré pini, uno per ogni etnia, e si sostituiscono le corone con la scritta “Noi ameremo Mao per sempre”. La coda per accedere alla casa natale del Presidente Mao comincia qui, a poco meno di un chilometro dal letto in cui la madre, fervente buddista, lo partorì dopo due figli defunti. Eserciti di guide turistiche e ambulanti assediano i fedeli-clienti, ordinati fuori dai pullman delle gite di partito. Giovani in abiti da monaci e sosia presidenziali, di varie età, si offrono a prezzi proletari per foto-ricordo.
Nessun grande dittatore del Novecento, non Lenin, non Stalin, e tantomeno Mussolini o Hitler, ma neanche alcun statista democratico, conserva un memoriale così impressionante e ancora decisivo, fondamentale per la sorte della Cina e tanto influente sul destino del mondo, quale è la fattoria dove Mao Zedong «cominciò a vivere aiutando i genitori nei lavori della stalla». Chi ci arriva è stato preparato: conosce biografia e storia a memoria, ha scorso centinaia di fotografie d’epoca, digerito decine di documentari seppiati e si limita a dire «vado alla Casa». Sa che, dopo due ore d’attesa e giorni di viaggio, scorrerà in cinque minuti attraverso sei stanze spoglie di una vecchia dimora contadina con muri e pavimento di fango, in riva a uno stagno, davanti a una risaia e alla collina dove riposano l’amata madre e l’odiato padre del Presidente Mao. Eppure, dopo centovent’anni dal divino vagito, la massa dei cinesi indebitati per una berlina tedesca e con il sogno inconfessabile di fuggire in America, procede in religioso silenzio tra il focolare e la vasca per l’acqua, commossa dalla propria, presto dimenticata povertà. È questo il capolavoro della propaganda maoista, più forte del silenzio che torna ad avvolgere lo sterminio del “Grande Balzo in Avanti” e i crimini della Rivoluzione culturale, abomini negati o ignorati del maoismo. Il messaggio universale della rinnovata nomenclatura è potente: l’energia dell’epocale successo cinese continua a derivare dalla forza di questa miseria, dalle privazioni, dal sacrificio, dall’onestà, dall’abnegazione filiale, dalla frugalità, dalla determinazione che permisero a un giovane contadino dello Hunan di trascinare la patria colonizzata dall’impero al socialismo, mutando il corso di due secoli. È il cuore dell’aggiornata ideologia capital-comunista della svolta riformista annunciata il 12 novembre da Xi Jinping: «Spianare le montagne», «arricchirsi gloriosamente» e ora «consegnarsi al mercato», ma non rinunciare «all’anima marxista del servire il popolo». A questo appalto della persuasione resta affidata l’irrinunciabile sacralità della casa natale del Presidente Mao. Si può evitare il mausoleo di Tiananmen, non la culla di Shaoshan. Cinque minuti di raccoglimento e una fotografia sull’augusto uscio, come in una Mecca materialista, bastano per una vita obbediente, se si riconosce l’autorità del luogo- mito. Il rinnovato impegno a una tale fedeltà vale ben l’investimento di Pechino che, per l’occasione, rompendo un altro storico tabù, si appresta a lanciare il cartoon Quando Mao Zedong era giovane, a esportare il film d’animazione Come si fa a diventare presidente e a stampare il volume Qualcuno deve finalmente dire la verità, che nega i quaranta milioni di morti del “Grande Balzo in Avanti”.
«Nessuno spreco per l’anniversario — dice il funzionario che mi accompagna a salutare l’ultima vicina di casa che assicura di essere stata amica del Grande Timoniere — Mao non appartiene alla sinistra, è l’ispiratore di ogni cinese e i giovani di tutto il mondo devono conoscerlo». L’ambiguità scientifica della divinità e dei suoi interpreti: dopo centovent’anni, grazie all’umiltà della Casa, il Presidente Mao resta il volto del partito-Stato, ma diventa pure l’immagine dei suoi oppositori interni, del montante ma imperseguibile dissenso-maoista che vorrebbe abbattere la casta corrotta che, proprio nel nome di Mao, torna a teorizzare il potere come dinastia ereditaria dei grandi interessi di clan. Primo difensore e atto d’accusa, sintetizzati in unico mandato del cielo, «insidiato solo — assicura la guida — dalla tentazione del denaro». Lo spirito di Mao però non ha impedito alla Cina di crescere fino a diventare la potenza più ricca del secolo. Un tappeto di teste adoranti, mentre la notte risale il passo del “Riposo della tigre”, si inchina così emozionata davanti alla gigantesca macina di pietra che il piccolo Zedong «riuscì a muovere già all’età di tre anni ». Fantasie, storia, parabole, propaganda: quanto tempo resisterà questa Cina del dopo figlio unico e liberata dai campi di lavoro, ma costretta ad aggrapparsi all’unico dio che riconosce come proprio, per poterlo quotidianamente abbattere senza crollare? «Mao Zedong vivrà per sempre — recita il falegname che entro il 26 dicembre deve finire di restaurarne l’altare domestico degli avi — Ma una cosa è certa: se Lui tornasse qui e vedesse ciò che siamo diventati, altro che riforme, farebbe subito un’altra rivoluzione».