Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  novembre 24 Domenica calendario

SONO IO IL CAPOLAVORO DI GIACOMELLI


«L’ho trovato!», esulta Simona via email. Simona è un’eccellente archivista e ricercatrice di fotografia, trovare è il suo mestiere. Ma ha trovato cosa? «Il bambino! Il bambino di Scanno, quello nella foto dello zio. Non ricordi?». Simona Guerra è anche la nipote di Mario Giacomelli, il Leopardi del bianco-e-nero, il genio irregolare di Senigallia, uno dei quattro o cinque nomi che tutto il mondo conosce nella storia della fotografia italiana. Sì, ricordo, un paio d’anni fa, quando Simona pubblicò un suo lungo colloquio biografico con lo zio registrato poco prima che morisse nel 2000, parlammo di quella foto di mezzo secolo fa che diventò la sua più celebre, la foto magica col bambino aureolato di luce in mezzo alle donne in nero, nel paesino abruzzese di Scanno, e le dissi: «pensa che emozione sarebbe incontrare oggi quel bambino... La riapparizione del Referente...». Lei non sembrava convinta. Invece poi l’ha trovato. Nel modo più semplice: è andata a Scanno con la fotografia sottobraccio, e ha cominciato a fermare la gente per strada: «Riconosce questo bambino?». Non ha dovuto insistere. «È Claudio De Cola», prima due anziani, poi un capannello, identificazione corale, «Abitava vicino alla chiesa. Ci stanno ancora i suoi genitori». E i genitori, che quella fotografia celebre non l’avevano mai vista: «È Claudio», confermano sicuri, tirano fuori l’album delle prime comunioni, e non ci sono dubbi: ecco Claudio, più grandicello ma identico, sopracciglia, orecchie, stempiatura, stesse mani in tasca.
Claudio non vive più a Scanno da decenni. Ha una sessantina d’anni, è sposato, ha figli, abita in Toscana. Bene, andiamo a trovarlo. «No, io non vengo», risponde Simona, lapidaria. Ma come? L’hai cercato per anni... «Io mi fermo qui. A Scanno ho cercato qualcosa di me, la mia infanzia, quel che mi ha dato quell’immagine, e io le resto fedele. Le fotografie bisogna lasciarle stare. Cercare è meglio che trovare». Resto senza parole. Simona, nelle foto ci sono le nostre emozioni, ma anche il mondo... Certe fotografie ti tirano dentro, e questa è una. Come disse Roland Barthes di fronte a uno scatto di Kertész, ritratto di un bimbo dell’età di Claudio: «È possibile che Ernest viva ancora? Ma dove? Come? Che romanzo!». Ecco Simona, io vorrei il romanzo. «Allora vai tu», sospira, capisco che solo l’amicizia le impedisce di essere più brusca, «scriverò un libro su questa foto, pubblico la scoperta sul mio sito, ma con questo ho raggiunto il mio ultimo scalino. Tu se credi cerca il tuo».
Ed eccomi davanti a un condominio anni Cinquanta, nel centro di Livorno. Apre la porta, sorridendo un po’ imbarazzato. Stempiatura. Sopracciglia. E ha le mani in tasca! «È più forte di me», ride «non sa che fatica trattenermi, quand’ero in divisa...». Claudio è stato per quarant’anni un finanziere. È andato in pensione un anno fa col grado di luogotenente, poi la nomina a cavaliere. Il salotto è pieno di quadri. La fotografia di Giacomelli non c’è. «Devo avere il ritaglio da qualche parte».
Sì, l’aveva già incontrato il suo avatar in bianco e nero. Una quindicina d’anni fa la foto era apparsa su un quotidiano, e un conoscente gli aveva detto «guarda, ci sei tu». Ma Claudio pensava fosse una delle tante foto storiche di Scanno. Città fotogenica, fin troppo. Da quando, nel 1952, passò di lì Henri Cartier- Bresson, e creò il cliché arcaico meridionale delle donne in nero fra stradine di ciottoli e scalinate, quel paesino montano d’Abruzzo divenne la Mecca dei fotoamatori, che ci facevano le gite domenicali, ma anche di grandi firme, Berengo Gardin, Roiter, Cresci, Monti... I bar espongono foto da museo, c’è pure una “via della Fotografia”.
Giacomelli, tipografo intellettuale e un po’ misantropo, andò a Scanno due volte, nel ’57 e nel ’59, anche un po’ per sfidare lo stereotipo di eden del pittoresco che Scanno era diventata. Per lui era «posto di favola», luogo immaginario, forzò i diaframmi per evitare il documento, tornò a casa con un pugno di immagini rarefatte, contrastate, «sporche », di bianchi bruciati e neri catramosi. Il critico Piero Racanicchi se ne innamorò. Le mostrò a John Szarkowski, direttore della sezione fotografia del Mo-Ma di New York. Che ci impazzì. Il “bambino di Scanno” fu l’unica fotografia italiana tra le cento della mostra-spartiacque “Looking at Photographs”. Quel bambino aureolato in realtà non entusiasmava il suo autore, la sua foto più famosa non è mai stata la sua preferita, al collega Alfredo Camisa confessò addirittura che quell’alone rinforzato in camera oscura gli era venuto «mascherato male», «quasi una porcheria». Ma il guru americano stravide per le diagonali, i contrasti, per quei profili malinconici di donne scure che gli parvero «bersagli di un tirassegno meccanico»...
«Ma no, avevano freddo», sorride Claudio, mite e senza retorica. «A Scanno fa freddo d’inverno. Vede, io sto rigido perché ho freddo e ho solo un golfino. E quelle donne di sicuro hanno lo scaldino sotto il mantello». Me ne mostra uno, di quegli scaldini, piccolo braciere di ottone, stufetta portatile: «Per questo camminano così curve». Esplora la fotografia che gli ho portato, col dito, centimetro per centimetro. Giacomelli ha “mangiato” i dettagli, ma Claudio li ripesca: «Questa è la chiesa di Sant’Antonio. Io abitavo nell’ex convento, queste sono le finestre di casa mia, ci sono i nostri panni stesi, vede?».
Un anno fa Claudia, sua figlia, laureata in Storia dell’arte, incontrò questa foto su una parete del Mart di Rovereto. «Babbo sei in un museo», gli telefonò. Appresero con stupore la fama di quella immagine vista forse da milioni di persone in mezzo mondo. «E dire che a me non piace viaggiare...». Claudio guarda il suo alter ego con moderato affetto, come fosse uno dei suoi cugini emigrati. Quel momento, però, non lo ricorda. Giacomelli che lo fotografa non c’è, nella sua memoria. «Curioso, quello spiazzo era sempre pieno di bambini, chissà come ha fatto a prendermi da solo ». La solitudine di quel bimbo è il fascino che ha reso celebre l’immagine, come il suo volto, unica cosa a fuoco, unico volto sereno, l’unico che sembra guardare verso un futuro... «Mi sa che stavo andando da mia zia», si schermisce Claudio. «Ma qualcosa di vero c’è. Qui avrò forse sei anni. L’anno dopo mi misero in collegio dalle suore, all’Aquila. Questa fotografia segna un passaggio nella mia vita. Da allora non ho mai più vissuto a Scanno». Non ci sono più cose da dire. Sapersi l’originale di un’opera d’arte, sentirsi come la Monna Lisa della fotografia, è stata per lui una curiosità piacevole, «ma non mi cambia la vita». Ci salutiamo. Promette: «Magari un giorno andrò a New York a vedermi in quel museo». Più tardi, Simona mi chiama al cellulare. Un po’ ansiosa. «Allora?». Tranquilla. Anche io ho raggiunto il mio gradino. Oggi ho incontrato una persona, non una fotografia. Spesso le strade delle persone e delle fotografie si incrociano, rare volte quell’incontro produce immagini che restano patrimonio dell’umanità. Ma dura pochi centesimi di secondo, poi foto e persona prendono ciascuna la propria strada. Rarissime volte, per qualche istante, si incontrano di nuovo e si salutano con rispetto e distaccata cortesia.