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 2013  novembre 24 Domenica calendario

PAOLO FERRARI


SANT’ ORESTE (Roma)
Gennaio di quest’ anno. Nel teatro di Casatenovo, provincia di Lecco, Paolo Ferrari recita con Andrea Giordana in Un ispettore in casa Birling. Quindi a un sito internet della locale annuncia, serenamente e senza clamori, il suo ritiro dalle scene dopo più di settant’ anni di lavoro. «Gli anni passano via veloci. Fare teatro vuol dire stare lontano da mia moglie, stare lontano da casa. Recito da quando avevo cinque anni, ne ho ottantaquattro. È tanto no? Così mi sono detto "adesso basta. Mi fermo qui"». Veterano dello spettacolo italiano, interprete teatrale di commedie brillanti, il mitico Archie Goodwin di una delle più belle serie tv di Nero Wolfe, la voce italiana di Humphrey Bogart, Ferrari ha scelto di allontanarsi dalla ribalta con la stessa discrezione con cui ci ha vissuto. Ha scelto di farsi dimenticare, più che di dimenticare.
Si è ritirato in un posto magico, nella campagna romana, in una bella villa a un piano, solitaria, isolata tra pioppi e querce, con un prato davanti e tutto intorno un bosco fitto, silenzioso. Un luogo bello e pauroso. «Ma no, è un posto che invita a guardarsi dentro - dice Ferrari con la celebre voce dal timbro caldo che è stata la sua fortuna - Un posto dove leggere, ascoltare musica, coltivare rose, andare in bicicletta, meditare. Alla meditazione io dedico ogni giorno qualche ora. Lasciar passare i pensieri, lasciarli andare senza trattenerli grazie a tecniche speciali, all’ om ... aiuta, fa bene. Io lo faccio da parecchio tempo. Quando recitavo mi mettevo in camerino e meditavo. Era un modo per concentrarmi sullo spettacolo».
Paolo Ferrari ha fatto l’ attore per un tempo esagerato. Appunto, tutto cominciò che aveva cinque anni. Bambino, si era pericolosamente avvicinato all’ acqua di un lago ma Gino Cervi lo aveva preso in braccio portandolo via. «Ho un vago ricordo di quell’ episodio, ma essere stato tra le braccia di quel grande attore dev’ essere stata una predestinazione». Sta di fatto che a soli nove anni recita in Ettore Fieramosca, film storico-avventuroso di Alessandro Blasetti, e alla radio fa il giovane balilla; a tredici anni è già in carriera come attore di cinema, a diciannove debutta con Giorgio Strehler, a trenta è uno dei volti più popolari della tv. Con Vittorio Gassmann e Marina Bonfigli, sua prima moglie, fa Il mattatore nel ’ 59, l’ anno dopo con Enza Sampò approda al Festival di Sanremo come presentatore, poi sarà protagonista di show, varietà, serie tv. Nel ’ 64 sarà il signor Collalto del Giornalino di Gian Burrasca di Lina Wertmuller con la Pavone (ed era già stato Barozzo nella versione cinematografica di Sergio Tofano del ’ 43). Alla metà degli anni Settanta il grande successo, è Archie Goodwin nel Nero Wolfe con Tino Buazzelli. «Quando girai quella serie non avevo letto neppure un romanzo: non volevo essere influenzato. Tino Buazzelli? Un autentico ciociaro, un casinista. Il contrario di Gassman che era timidissimo, nonostante sembrasse così sicuro di sé. Che risate con Vittorio una volta, doveva essere proprio durante Il mattatore. Facevamo uno sketch in cui io dovevo tirargli in testa una sedia, ovviamente fatta apposta per rompersi facilmente. Senonché un tecnico puntiglioso l’ aveva rinforzata, così quando gliela diedi in testa non solo non si ruppe ma un rivolo di sangue cominciò a scendergli sul viso... Finimmo poi per riderci su ogni volta che ci incrociavamo. Per esempio in occasione de Il sorpasso di Risi. Io fui chiamato a doppiare Jean Louis Trintignant. Mi arrabbiai: "Non lo potevo fare io, il personaggio di Trintignant? Non sono Alain Delon, ma neanche lui". Mi intortarono col fatto che era una coproduzione italo francese...». Il doppiaggio è stata una parte importante della sua carriera di attore fin dal ’ 48: David Niven, Franco Citti e, dall’ inizio dei ’ 70, Humphrey Bogart ne Il mistero del falco, Il grande sonno, Agguato ai tropici. «Non ho frequentato nessuna scuola di recitazione. La mia scuola è stata Bogart. Non era facile doppiarlo perché non apriva mai la bocca, andare in sincrono era una sfida, ma doppiandolo ho potuto vedere come modificava il suo personaggio, come cambiava il modo di mettere la sigaretta tra le dita, in bocca, il suo sguardo... L’ ho studiato imparando enormemente».
Paolo Ferrari è stato un tipo di attore molto borghese, misurato, discreto, equilibrato, perfino modesto. «È vero, ma anche nella mia vita sono capitate cose strane. Mio padre, per esempio, era un uomo dotato di una grossa forza medianica: parlava e la gente si sentiva come toccata. Una volta parlando alla radio salvò un uomo che, confessò poi, si stava per suicidare, ma ascoltandolo desistette. E pensare che mio padre per me era stato a lungo "lo zio". Solo quando sono diventato grande ho saputo che era il mio vero papà, e non mi dispiacque. Sì c’ era stato anche un padre "formale": il mio cognome vero sarebbe Vitta. Ferrari era mia madre, Giulietta, quotata pianista che introdusse in Italia la musica di César Franck. Fu lei a dirmi del mio vero padre e io pensai subito che se ero figlio di un uomo così, qualche cosa dovevo avere dentro anch’ io. Era console italiano in Belgio. E questo è il motivo per cui fui scodellato a Bruxelles». In una vita ricca e luminosa, la sola ombra oscura era il fratello, Leopoldo, che era stato nella polizia fascista e morì annegato nel lago di Como. «Era il ’ 45, eravamo sfollati. Una mattina mi salutò dicendo che doveva andare in un posto. Lo vidi allontanarsi con un uomo, non tornò più. Lo giustiziarono i partigiani. Per me fu uno shock. Dormii per cinque giorni consecutivi. Non ce l’ ho mai avuta con i partigiani per questo, però mi piace ricordare che quando il padre di un suo amico gli aveva proposto di fuggire per salvarsi, Leopoldo aveva risposto: "Questa divisa l’ ho presa, l’ ho portata, ho la coscienza pulita, non la tolgo e accada quel che deve accadere"».
Il giovane Paolo passa il dopoguerra tra i tavoli di ping pong («giocavo puntando soldi e vincevo») e il cinema. «Finché nel ’ 49 mi chiamò Strehler. Fu una cosa divertente e strana. Io non ero nessuno, avevo fatto fino a quel momento parti da tenentino, nulla più. Fatto sta che mi chiama il Piccolo Teatro per una piccola parte ne Il Corvo di Carlo Gozzi. Io avevo avuto un’ altra proposta dalla compagnia StoppaMorelli. Quindi dissi no al Piccolo. Ma loro insistevano, due, tre, quattro volte. Paolo Grassi in persona mi scrisse un telegramma: prendiamo atto della sua indisponibilità ma ci teniamo a dirle che nessuno ha rifiutato con tale ostinazione una nostra proposta, scrisse. Io ero incosciente, mi ero pure detto che forse c’ era una omonimia... perché non capivo quella ostinazione: io non ero proprio nessuno. Sta di fatto che lo spettacolo con Stoppae Morelli saltò. Il Piccolo venne a saperlo e mi richiamò ma l’ offerta del mio cachet era stata abbassata. Non mi restò che prendere il mio trenino di terza classe e andare a Milano. Al Piccolo recitai per qualche anno e nel ’ 56 dalla platea seguii anche le prove de L’ opera da tre soldi se ben ricordo con Bertold Brecht presente che fece anche correzioni sul testo». Il Piccolo, soprattutto, lo laurea definitivamente alla carriera teatrale: con il Teatro dei Gobbi insieme a Paolo Panelli, Marina Bonfigli, Anna Menichetti, Monica Vitti, Francesco Mulè, con De Bosio, con De Lullo prima di dedicarsi al repertorio brillante accanto a Valeria Valeri, per tutti gli anni Settanta e Ottanta, l’ unica attrice di cui ha la foto sulla scrivania dello studio. «Il teatro è stata una grande passione. Di diventare famoso non mi è mai importato granché. Quando feci la pubblicità del Dash, quella di "Le do due fustini in cambio del suo Dash" e per anni in teatro a ogni mia apparizione sentivo dalla platea il sibilo del "Dashshshsh", diventavo furente».
Alla visibilità ha sempre preferito il pudore; alla fama, la sicurezza; agli eccessi, la propria malinconia, tanto che il personaggio che più ha amato è Adriano di Anima nera, il dramma di Patroni Griffi su un uomo tormentato. «Che bel testo», dice cercando nella memoria come in trance le battute che un tempo diceva in scena. "E tu non hai niente da dirmi? E tu non hai niente da dirmi? Nooo", urlavo, "Nooo"». Le manca essere quello che è stato? Silenziosamente si volta e dalla libreria prende un cofanetto dell’ opera omnia di Beethoven e dal tavolino il libro delle poesie e dei racconti di Rilke come due totem pronti a difenderlo dall’ isolamento. «Mi stendo su questo piccolo divano e dalla finestra che mia moglie ha disegnato con questo grande arco, guardo il bosco, leggendo le mie poesie e ascoltando la mia musica. Andare a Roma? A teatro? Al cinema? No, troppa fatica. E perché poi? Qui ho un po’ di tempo per ampollosamente guardarmi dentro, per guardare che succede e farmi qualche domanda... Che sono venuto a fare o che dovrei fare dal momento che sono su questa palla. Cose così... E mi bastano».