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 2013  novembre 24 Domenica calendario

GUALTIERO MARCHESI – [LA CUCINA? IO VI DICO CHE È UN’ARTE VERA E CHE LA PERFEZIONE È LA MIA DOLOROSA OSSESSIONE]


Il risotto al salto è perfetto: morbido dentro, croccante e ambrato fuori. Un po’ come il suo eloquio: sobrio, quasi sommesso nel tono, ma duro, a volte dogmatico nella costruzione. Per il "timido" Gualtiero Marchesi, comunque una conquista. Sia che parli sia che cucini lo fa con un’ estrema attenzione ai dettagli e ai tempi. Al tavolo dove sediamo, nel suo ristorante "Il Marchesino", accanto alla Scala, mi espone quasi sotto voce la sua filosofia. È un uomo che mi incuriosisce. Non per il successo, che è indiscutibile e, aggiungo, meritato, ma per quello che il successo gli ha tolto. È un’ idea strana che mi sono fatto sentendolo parlare: c’ è un Marchesi ufficiale, consegnato alle cronache più ovvie, e un Marchesi meno saldo, più sfuggente, difficile da stanare. È lì che vorrei condurlo. Oltre una certa idea prevedibile di perfezione. «Ha qualcosa contro la perfezione?», mi chiede. No, e lei? Fa una pausa e poi dice: «Vede, la perfezione è un ideale, io l’ ho cercata prima che nel piatto dentro di me». Ecco, è questa certezza lievemente ascetica che mi preoccupa.
E l’ ha mai trovata, intendo la perfezione?
«La perfezione non è un oggetto che sta in qualche luogo. È semmai uno stato di grazia che ogni tanto ti visita, e fa scoprire la grandezza di ciò che si è fatto. Poi, c’ è anche una perfezione tecnica che un maestro trasmette. Per esempio le uova non vanno mai sbattute troppo».
Un uovo è sufficiente per spiegare un mondo?
«Perché no? Un uovo simbolizza la nascita».
Dove è nato lei?
«A Milano in un camera d’ albergo. In fondo, il mio destino era segnato».
Crede nel destino?
«Per niente. Ma è comodo pensare che esista. In positivo e in negativo».
Chi erano i suoi genitori?
«Gente perbene, albergatori di un talento antico. Li ho sempre visti fare questo lavoro e ho appreso da loro i primi rudimenti. Specializzazione a Saint-Moritz e a Lucerna. Poi alcuni anni in Francia e la fortuna di incrociare i grandi cuochi che lavoravano per i migliori alberghi internazionali».
C’ era un codice di accesso?
«Cosa intende?»
Qual era la cucina di riferimento.
«Quella francese, ovviamente. Codificata da Escoffier».
Non è troppo convenzionale?
«Parlo dei primi anni Cinquanta. E in ogni caso Auguste fu un genio. La Belle époque non so cosa sarebbe stata senza di lui. Adoravo le sue realizzazioni. Quando lui costruiva un sistema del gusto, in Italia i ricettari erano ancora molto matriarcali».
Beh, abbiamo avuto Pellegrino Artusi.
«Ma non era un cuoco. Era un letterato. Siamo un paese che ancora stracuoce tutto».
Perché?
«Non lo so. Forse ha contato molto la tradizione contadina che in casa annullava la nozione del tempo. Tutto un plò plò plò accanto al camino. Per carità, va benissimo. Ma la grande cucina è altra cosa».
È arte?
«Non lo chieda aspettandosi che la smentisca».
Mi sorprenda.
«Sì, a certi livelli è arte. E pensiero. Il mio amico Ermanno Olmi parlò una volta del "palato assoluto". C’ è chi ha questo dono, come altri hanno l’ orecchio assoluto. Naturalmente va affinato».
E lei?
«Io cosa?»
Come si definirebbe?
«Un artista».
Non la spaventa, diciamo, quest’ affermazione senza ironia?
«Non sono ironico. All’ ironia si può dedicare con successo un critico. Chi fa, chi esegue, fosse anche il piatto più semplice, si mette in discussione su un altro piano».
Quale?
«Quello dell’ opera. Della sua realizzazione. Occorre, esperienza, tradizione, sapienza e creatività. Ecco perché parlo di arte».
Un arte quanto importante?
«Abbastanza da diventare memorabile. Peccato che ogni piatto ogni volta si dissolve e non resta che il ricordo della composizione tra colori e sapori svaniti».
Sembra quasi che stia parlando di un quadro?
«I quadri dei grandi artisti sono per me fonte di ispirazione. Pollock e Fautrier sono stati alla base di certe mie realizzazioni».
Frequenta gli artisti?
«Frequento i musei e le gallerie. Oggi è più utile. Sono stato amico di Pomodoro, Tadini e soprattutto di Manzoni. Che nottate passavamo con Piero».
La sua celebre "merda" nel barattolo dove è finita oggi?
«Non mi faccia diventare volgare».
E cosa facevate la notte?
«Di tutto, con spensierata allegria. Si rincasava alle quattro e mezzo del mattino dopo aver girato per osterie e locali o in case di amici. Era la Milano degli anni ruggenti, non quella da bere».
Ne ha nostalgia?
«No, ogni cosa ha il proprio tempo».
Come la Nouvelle Cuisine?
«Alcuni suoi principi sono tutt’ ora validi. La praticavo ancor prima che Gault e Millau la codificassero agli inizi degli anni Settanta. Furono i miei amici Paul Bocuse e i fratelli Troisgros i fautori del nuovo stile».
Secondo alcuni uno stile effeminato.
«Direi elegante, esteticamente ineccepibile. Poi, col tempo, si è estenuato».
Oggi la cucina cerca la legittimazione televisiva.
«È vero. Gli chef insegnano più che l’ arte della cucina quella del combattimento. C’ è qualcosa che non va. In un piatto deve prevalere l’ armonia e l’ amore».
Guarda la televisione?
«Pochissimo, mi deprime. Preferisco, se posso, leggere un libro o andare a un concerto. Mia moglie è stata una pianista, le nostre figlie si sono dedicate alla musica».
Nessuno in famiglia sulle sue orme?
«Ognuno deve seguire la propria vocazione. E poi i ristoranti sono ormai imprese complicate».
E rischiose?
«Il rischio fa parte del gioco».
So che con la fine dell’ anno lei lascerà il ristorante di Erbusco, nella Franciacorta.
«È una lunga stagione che si è chiusa. Vent’ anni, dopotutto, non sono pochi».
Con quale stato d’ animo va via?
«Molta amarezza, ma anche sollievo. Lì abbiamo realizzato alcune delle ricette più belle. In ogni caso, avvieremo una nuova iniziativa: un resort nel Castello di Agrate Conturbia, in provincia di Novara. Mi sembra di tornare alle origini».
Ha sempre pensato di diventare uno chef?
«Non sempre. Da giovane, per un attimo, ho immaginato di diventare un campione di biliardo. Ero molto bravo e attratto da quella geometria del movimento, in cui l’ errore dipende solo dalla mancata coordinazione tra la mano e l’ occhio».
Come reagisce quando sbaglia un piatto?
«Non l’ ho mai sbagliato. Prima di presentarlo al pubblico c’ è molta sperimentazione. Molte prove. Un piatto semmai può essere datato. A volte viene a noia farlo».
È sempre così determinato, assertorio?
«Se non lo fossi sarei stato travolto. Stare all’ apice di una professione è dura».
La sua infanzia?
«Tranquilla, nella timidezza e introversione. Gli anni felici furono quelli di quando sfollammo a San Zenone Po, durante la guerra».
C’ era nato Gianni Brera.
«Lo so. Ma con Giuanin ci frequentammo nel periodo milanese. Amava le osterie della bassa, il mondo semplice di Guareschi. Era dotato di una raffinatezza elementare e di una lingua straordinaria».
Era un gourmet?
«Direi un appassionato, che è meglio. Come Mario Soldati. Maledetto il suo sigaro!»
Le piace la letteratura?
«Moltissimo. Ho amato quella russa, in particolare».
Perché?
«È la più vicina all’ idea che ho di uomo».
E che idea ha?
«Oggi è diventato un piatto complicato, i cui ingredienti si vanno banalizzando. Manchiamo soprattutto di sale, intendo di sapere».
La conoscenza non è più quella di una volta?
«Pensiamo sempre meno. In compenso circola una gran chiacchiera. Siamo il paese delle mille piazze».
C’ è molto fermento sotto il cielo.
«C’ è molta crisi».
Come reagisce?
«Vado avanti per la mia strada. Bisogna pur credere in quello che si fa».
È un imperativo o cosa?
«È una forma di dovere. Confucio dice: se ogni cittadino facesse il proprio dovere, lo Stato non avrebbe bisogno di far niente».
Ma da noi lo Stato ha quasi sempre fatto niente.
«Per questo la Chiesa ha rivestito un grande ruolo».
È religioso?
«No».
Crede in Dio?
«Credo in me stesso. Quando penso di aver fatto il mio dovere sento che la fede nel fare cresce».
Ha un’ individualità molto spiccata.
«Non avrei fatto quello che ho fatto».
Non vedo in lei crepe, non colgo dubbi. Sempre così determinato?
«Se lei guardasse bene vedrebbe anche altro. Sono un uomo pieno di dubbi. Soprattutto ora».
E come li esterna?
«Vado da uno psicologo. O meglio da una figura strana, un amico che mi ascolta per ore. È difficile spiegare agli altri quello che non hai capito di te. Ieri sera ero stato invitato a cena da una bella donna. Cena gradevole, conversazione libera e rilassata. A un certo punto, verso la fine, mi sono concentrato sui piatti. Per carità buoni, ma pasticciati. Ecco, sento che la mia psiche si è andata via via pasticciando. A volte penso che vorrei essere fuori da me stesso per capirmi».
E ci riesce?
«No, per questo ho scelto la forma di dialogo con un amico».
Ha paura di pronunciare la parola "analisi"?
«Sono un vecchio signore che non ama proprio sottomettersi alle tecniche di uno specialista».
Cosa la fa soffrire?
«Cercare di mettermi a nudo può creare sofferenza».
Scoprire cose che di sé magari non si sanno?
«Passiamo parte della vita a nasconderle. O a ignorarle. Poi si arriva a un punto in cui ci si accorge che manca la chiarezza necessaria per comprendersi, e andare avanti con la giusta serenità. È quello il momento delle decisioni».
E cosa accade?
«Provi a fare pulizia dentro di te».
C’ è un momento in cui tutto questo è avvenuto?
«Per quanto mi riguarda non è che una mattina mi sono alzato trovandomi cambiato, come lo scarafaggio di Kafka. No. È un malessere lento che cresce dentro. Ed è difficile da stanare. A me, se proprio devo dargli una configurazione, è accaduto un po’ in coincidenza con la malattia di mia moglie».
Se la sente di farne un accenno?
«È difficile parlare di queste cose. Ricordo l’ inizio, una sera: mia moglie si diresse al pianoforte. Voleva suonare. Non ci riuscì. Provò di nuovo. Non ci fu niente da fare. Colsi improvvisamente in quello sforzo la sua disperazione. Le mani, le braccia, erano come paralizzate. Mi avvicinai, sfiorandole la testa con una mano. Gualtiero, vorrei morire, mi disse, guardandomi con la testa lievemente inclinata. Da quel giorno è stato un lento declinare e oggi dipende interamente da una persona che ne ha cura».
Cosa le provoca?
«Dolore, un dolore che frastorna. Ma anche voglia di vivere. Di reagire pensando che i fantasmi non avranno la meglio su di te. Qualcuno ha detto che la mente fabbrica dei e demoni con ciò che trova sottomano. E noi, aggiungo, non siamo in grado di impedirlo. Perché il quotidiano è pieno di trappole e di insidie. Però occorre combattere. Io l’ ho fatto con le mie armi, e le mie passioni. Non ho mai cercato il successo. Ma la perfezione sì. La perfezione è stata sempre la mia ossessione, la mia disciplina interiore».
E sa darle un nome?
«Ecco una domanda che non ha una risposta. Potrei dirle che io sono tutto quello che ho dimenticato».