Fabrizio Boschi, il Giornale 24/11/2013, 24 novembre 2013
NELLE FABBRICHE DEI CINESI UNO SU TRE DEV’ESSERE ITALIANO
Quel furbacchione di Corrado Formigli non volendo è inciampato su una notizia. Nell’ultima puntata di Piazza Pulita ha sguinzagliato un suo fido segugio per confezionare un servizio sulle banalità della Prato cinese, sciorinando i soliti luoghi comuni che tutti gli organi di informazione dicono e scrivono ormai da anni: laboratori cinesi di filati trasformati in abitazioni, cinesi che lavorano domenica e festivi penalizzando le attività commerciali italiane, cinesi senza permesso di soggiorno, cinesi che non pagano le tasse, bla bla bla. Alla faccia dello scooppone .
Se non altro, però, quel reportage è servito ad una cosa. A riaccendere una debole lucina su un tema stranoto, ma incredibilmente ignorato o, peggio, tollerato dalle istituzioni: quello del lavoro nero e dell’illegalità nelle aziende cinesi, così a Prato quanto nella avanzatissima Milano. Tutti sanno ma nessuno parla.
E all’improvviso una ex sindacalista dell’Ugl, capogruppo di Forza Italia in consiglio comunale a Calenzano (Firenze), Monica Castro, famosa per le sue sparate provocatorie, rispolvera un’ideona che aveva già lanciato nel 2010 ma che i politici, chissà come mai, snobbarono, definendola improponibile: assumere una percentuale di italiani nelle aziende cinesi che fungerebbe da deterrente contro l’illegalità. «Non è una provocazione - spiega la Castro - anche perché in Cina c’è già una legge che obbliga gli imprenditori stranieri ad assumere almeno il 30% di dipendenti cinesi. Dunque non si capisce per quale ragione non si debba pensare anche in Italia a una soluzione simile, che servirebbe non solo ad abbattere la disoccupazione, ma anche all’integrazione. Infatti la comunità cinese, così a Prato quanto a Milano, è chiusa, ripiegata su se stessa, con tutti i problemi che la cosa comporta. Parliamo tanto di integrazione, ma per farla diventare realtà bisogna partire dal basso e dal mondo del lavoro».
Secondo la Castro «in questo modo verrebbe garantito anche un doppio controllo incrociato all’interno delle imprese cinesi, con lavoratori italiani che non hanno paura di andare a denunciare movimenti illegali ai sindacati e non esisterebbero più aziende composte da cinesi schiavizzati».
Inoltre, un canale nuovo di assunzioni potrebbe assorbire chi, esauriti gli ammortizzatori sociali, si trova senza lavoro. Prato potrebbe diventare una sorta di laboratorio sperimentale italiano, insomma, vista la consistenza numerica della comunità cinese, la più grande d’Italia, tanto che dagli anni Ottanta ad oggi ha visto crescere la popolazione orientale del 90% e in questo momento si contano 30mila occhi a mandorla su una popolazione di appena 177mila abitanti (a cui si aggiungono altri 15mila stranieri di diverse nazionalità, tra regolari e non).
Castro chiede al sindaco di Forza Italia di Prato, Roberto Cenni, «di pensare a una norma che renda obbligatoria l’assunzione di una percentuale di lavoratori italiani nelle imprese cinesi », ma in tutta risposta il primo cittadino, imprenditore e fondatore del marchio di abbigliamento Sasch, ha rispedito l’idea alla mittente: «Noi non siamo la Cina. Siamo un Paese liberale e vogliamo continuare a esserlo. Ed è per questo che è difficile approvare norme che non siano uguali per tutti».
La capogruppo però insiste. «Non so se si può prendere una decisione del genere a livello locale o regionale ma sicuramente il sindaco potrebbe fare pressioni sul governo per far approvare una norma del genere anche in Italia. Per Prato sarebbe importantissimo, del resto non possiamo continuare a contare all’infinito sugli ammortizzatori sociali. Prima o poi finiranno e la sensazione è che la città non sia in grado di assorbire tutti coloro che hanno perso il lavoro. Ci sarebbero vantaggi anche per lo Stato, perché diminuirebbe l’incidenza degli ammortizzatori sociali e sarebbe più facile fare controlli. I sindacati avrebbero più facilità ad aprirsi un varco in quel mondo sommerso, con maggiori garanzie per tutti i lavoratori, anche cinesi».
Via Pistoiese, poco distante dal centro storico, è una città nella città (un po’ quello che è successo in via Sarpi a Milano), una Chinatown dove non si parla italiano e l’integrazione è lontana. I pistoiesi, irriverenti vicini di casa, ormai la chiamano solo «Plato».