Vittorio Sgarbi, il Giornale 24/11/2013, 24 novembre 2013
QUEL MARTIRIO PLURIMO CHE SPRIZZA SENSUALIT
[Correggio – Martirio di san Placido e di santa Flavia (1525) – Gallerie dell’Accademia a Venezia]
Non si era mai visto un martirio plurimo, con tanto di implacabili carnefici e gli angeli subito pronti ad accompagnare l’anime dei martiri in cielo, così dolce e zuccherino. Dei quattro martiri ne vediamo due, ancora vivi e felici del loro destino, Placido e Flavia; gli altri due Eutichio e Vittorino sono già a pezzi, sparsi sul terreno con le carni nude, morbide e rosee come dolci siciliani di marzapane. Ciò che colpisce immediatamente è proprio lo stato d’animo del pittore, ovvero uno stato di grazia che gli impedisce di vedere e di rappresentare il male. È questa la condizione psicologica che fa del Correggio una personalità compiuta e autonoma del Rinascimento dominato da Michelangelo e Raffaello, cui egli nulla deve. Se mai, formatosi, com’è documentato e nell’evidenza dei suoi esordi, alla scuola del Mantegna, dovette guardare con attenzione a Leonardo e al suo sfumato, a quell’atmosfera dell’aria che conferisce vaghezza e tenerezza ai volti. Così come la nebbia attribuisce, avvolgendo, l’umore al culatello. E molti sanno che non riesco a spiegare Correggio compiutamente, evitando di baloccarmi sul viaggio eventuale a Roma, se non facendo riferimento al prezioso salume dall’inarrivabile e ineffabile sapore. Ed è proprio la sensualità, con l’adesione di tutti i sensi,la caratteristica distinta e peculiare di Correggio rispetto ai grandi pittori del Rinascimento e anche al suo vicino, ma diversissimo e tagliente come pietra preziosa, Parmigianino. Correggio invece è morbido come nessun altro, languido come non saprà essere neppure Watteau o Boucher. È inutile cercare, come molti si affannano, il buco nelle ore beate della sua poco esibita esistenza, per collocarvi il viaggio a Roma. Se anche vi fosse stato, come il suo affine Ludovico Ariosto, non ne avrebbe tratto alcun beneficio, ma soltanto malumore per la scomodità del viaggio e per l’alterità delle sue idee rispetto agli ideali di Raffaello e Michelangelo. A Correggio interessano i corpi e le anime solo in quanto animano, appunto, i corpi. Per Correggio l’anima è nel cuore, non nella testa. La sua pittura è un estasi di sensualità senza fine, ben diversa, dalla pur ammirata, Estasi di Santa Cecilia di Raffaello. Correggio si disfa nelle sue cupole per la chiesa di San Giovanni Evangelista e per il Duomo di Parma. Non ci sono punte o spigoli e neppure forza ed energia. Come Ariosto, nella lettura di Benedetto Croce, Correggio è il poeta dell’armonia. A coglierlo fra i primi fu Mengsche da Correggio derivò un Presepe di notte, tra luci ed essenze soffuse: «Se Tiziano fu singolare nelle tinte, e ne colori locali di qualunque cosa, che rappresentava, Correggio, benchè non meno perfetto in quest’articolo, lo superò infinitamente nel rilievo particolare nelle entrate, e nelle uscite di ciascun corpo, e delle sue parti, come anche nell’artifizio della prospettiva aerea, non solo riguardando gli oggetti degradati di chiaro, e di scuro per la distanza interposta, ma anche per certa intelligenza della natura dell’aria, la quale essendo materia, più o meno diafana si riempie di luce, e passando tra’corpi la comunica agli stessi in quelle parti dove non può giungere il raggio diretto...»
Il destino di Mengs era segnato anche nel nome di battesimo, lo stesso di Raffaello e Correggio: Anton Rafhael. Nel martirio dei Santi Placido, Flavia, Eutichio e Vittorino, concepito per la Cappella del Dono nella chiesa di San Giovanni Evangelista a Parma, non c’è spazio per il male, la morte e il sangue (occorrerà aspettare, per questi ingredienti, il Seppellimento di Santa Lucia del Caravaggio): qui tutto avviene in ritmo di danza mentredal cielo arrivano le stesse musiche celesti della Santa Cecilia di Raffaello. E noi le sentiamo attraverso l’espressione del volto di Santa Flavia. Anche i cattivi carnefici non infieriscono. Il male in atto ha la stessa consistenza che ha nei cartoni animati. Nel raccontarlo così, come in una festa, più che in un dramma, Correggio, benché teso al sublime, ricorda Lorenzo Lotto. Ma in quest’ultimo la pittura è tenera, con colori pastello, senza chiaroscuri. E labile, e post leonardesca, è la parete azzurra, irrealistica, della collina sullo sfondo della quale si ritaglia il gesto assassino del carnefice di San Placido. Se nella Santa Cecilia di Raffaello sentiamo le musiche, nel martirio di Correggio sentiamo profumi, le une e gli altri indicibili. Nessuno come il Correggio ci fa desiderare che l’agognato martirio dei Santi sia anche il nostro.