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 2013  novembre 24 Domenica calendario

LADRI E FIGLI, ULTIMA FERMATA DOPO IL ‘68


Senza troppe premesse, va detto subito che Gli sdraiati (Feltrinelli) è un libro bellissimo. Michele Serra ha saputo fare molto più di quel che fa abitualmente come giornalista: ha scritto un romanzo che è e non è un romanzo. Viene in mente Kurt Vonnegut, e non solo perché lo scrittore americano è un suo modello più o meno esplicito, ma perché c’è l’immediatezza, la brutalità quasi, un’inventiva sfrenata, l’umorismo e la moralità, la narrazione che si mescola con la critica aspra del mondo contemporaneo. Un’elaborazione lunghissima, sei anni, per un libro esile (un centinaio di pagine). Nel caffè del cortile di Palazzo Reale, a Milano, si può parlare in santa pace anche alle dieci del mattino, bevendo un caffè (oggi tutti lo potranno sentire alle 16 al Portico dell’Elefante al Castello Sforzesco). «Mi paralizzava l’argomento, per anni ho raccolto materiali, frammenti, frantumi sparsi sul tema dei padri e dei figli, ma non riuscivo a trovare il bandolo della matassa: c’erano il titolo, un inizio e la frase finale». La frase finale è questa: «Finalmente potevo diventare vecchio», ma per coglierne il senso bisogna attraversare tutta la dolce-amarezza del libro, perché quella frase arriva dopo un crescendo che si impenna nell’ultimo capitolo. C’è un padre, l’io narrante, e c’è un Tu senza nome, che è il figlio, uno degli «sdraiati» del titolo. Sdraiati in senso letterale: perennemente distesi su un divano con le cuffiette sugli orecchi o su un letto nel sonno comatoso, mentre il resto del mondo è in piedi a darsi da fare.
Il bandolo della matassa, nella lunga elaborazione del romanzo, è arrivato inatteso quasi in extremis: è un filo rosso esilissimo, il tormentone del padre che a distanza di pagine implora il figlio di accompagnarlo sul fantomatico Colle della Nasca in un climax di comicità a tratti patetica: «ti farebbe molto bene... mi devi credere», «Te lo chiedo per piacere. Non farlo per me. Fallo per te», «Se vieni con me sul Colle della Nasca, ti pago», «Se non vieni con me sento che potrei morire di crepacuore», «Se non vieni con me al Colle della Nasca, ti rompo la schiena a bastonate». Il Colle della Nasca è il tentativo di appigliarsi a qualcosa pur di condividere con il figlio un brivido di fronte allo spettacolo del mondo. Il piacere della bellezza naturale, assoluta. Perché Gli sdraiati è il resoconto della difficoltà di trasmette un desiderio, anche minimale. «Il rovello che spinge il padre a raccontare è una domanda: che cosa lascio a mio figlio?». Il piacere della bellezza che si nasconde in un tramonto o in una pianta. «Naturalmente con il carico di fragilità egoistica che questo comporta, perché tuo figlio ha tutto il diritto di dire: ma chi se ne frega di una portulaca!».
Ci sono pagine esilaranti sulla fenomenologia dello «sdraiato», c’è l’invettiva, la rabbia esplosiva del padre spaesato di fronte a quel «groviglio interconnesso» che è il figlio. E non manca l’autocritica: «Man mano che si procede nel racconto — dice Serra — si infittiscono le domande e la satira del padre su se stesso, anche perché non sa esattamente chi è suo figlio, in definitiva non lo conosce»; domande sulla mancata autorità e sulla propria confusione, su quella stramba e inedita «evoluzione della specie» di cui il figlio è autorevole e simbolico rappresentante, sull’incapacità di creare un contatto basico tra generazioni proprio nell’epoca del contatto diffuso. «In termini tecnici, sono un relativista etico», dice il padre, «il tutore ondivago di un ordine empirico, composto e poi scompaginato giorno per giorno (...). Ma lo avrei cercato volentieri insieme a te, quell’ordine, nelle pieghe faticose della convivenza, raccogliendo i calzini fetidi che segnano il tuo indugiare in un’infanzia decrepita, offensiva per entrambi, lavando i piatti sporchi che lasci ammuffire nel lavello». Eccolo lì il «dopopadre» debole di Massimo Recalcati, ma senza socio-psicologismi: «La lettura di Recalcati è stata il mio alibi: inutile, mi dicevo, sperare che torni il padre di una volta. E poi devo ammettere che l’odio per il padre-patriarca di una volta mi emoziona ancora, come il riverbero migliore del mio antico sessantottismo. Nella rivolta libertaria, caotica e per lo più fallimentare, trovo ancora quel nucleo meraviglioso secondo cui le cose non devono nascere per forza dall’imposizione, dall’autoritarismo e dall’obbligo». Una consapevolezza che riduce al minimo le richieste dei padri, cosa di cui i giovani dovrebbero pur apprezzare i vantaggi. Il minimo richiesto è il decoro domestico (il cesso pulito, l’accortezza di spegnere ogni tanto qualche lampada, lo sputo di dentifricio non lasciato impresso a futura memoria nel lavandino...), ma anche qualcosa che ha a che fare con l’etica: «cercare un equilibrio decente tra la propria porca presenza al mondo e la porca presenza degli altri». La domanda inevitabile è: autobiografia? «Il figlio del libro è la somma di tanti ragazzi, figli miei e non miei con cui convivo, ma anche figli di amici e conoscenti. Devo dire che i miei figli hanno letto e apprezzato il libro, ma il tappeto all’ingresso dopo il loro passaggio è sempre una cordigliera delle Ande... Mi aspettavo qualche piccolo cambiamento». Ci ride su, Michele, ovvio: «Però dico sempre che quando ho saputo che mia figlia aveva la passione irresistibile della barca a vela, beh, per me è stato un sollievo gigantesco. Mi sono detto: oh cavolo, esiste una relazione forte tra lei e la bellezza del mondo!».
Si diceva di Vonnegut. Nel libro di Serra c’è anche il suo versante fantascientifico. Pura futurologia apocalittica proiettata nel 2054, anno di una Grande Guerra Finale tra l’esercito incarognito e potente dei Vecchi e l’armata brancaleone dei Giovani, in mezzo a vibrazioni telluriche, campi di battaglia desertificati, bagliori metallici, sopravvissuti arrancanti. Apocalisse solo apparente in realtà, perché, come diceva De Andrè, spesso «dal letame nascono i fior». E dai frammenti sgorga la narrazione: è come se dai frantumi iniziali del racconto, perfettamente simmetrici al rapporto sbriciolato tra padre e figlio, si riuscisse finalmente a comporre una trama compatta e coerente. «Intendiamoci, il padre del libro sarà pure nevrastenico, umorale, imbecille, mollaccione, ma è un padre tifoso, che non conosce indifferenza. Il pericolo di un racconto dalla parte dei padri è la generalizzazione sociologica. Ci sono lettori che mi chiedono le royalties dicendomi: “come fa a conoscere così bene mio figlio Ugo?”. È ovvio che il successo del libro aumenta questo pericolo». Già, primo in classifica, mica uno scherzo. Il sorpasso su Fabio Volo è avvenuto nei giorni scorsi.