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 2013  novembre 25 Lunedì calendario

EMERGENZA DEBITO IN TUTTA L’EUROZONA


Un macigno di quasi 9mila miliardi incombe sui cittadini europei. A tanto ammonta il debito pubblico dei Paesi dell’Eurozona nel secondo trimestre, conto salato della bassa crescita unita all’effetto dell’austerity. Il passare del tempo non l’ha eroso, anzi ha contribuito a farlo lievitare sempre di più, tanto che a fine anno, secondo le stime della Commissione Ue, arriverà a quota 95,5% del Pil, venti punti in più rispetto a vent’anni fa. E il trend sarà in salita anche in futuro.
Nel 2013, secondo le previsioni di Bruxelles, non solo l’Italia, ma tutti i Paesi tranne la Germania registreranno un aumento, mentre nel 2014 in undici su 18 saranno sotto pressione. E solo in quattro (Estonia, Slovacchia, Lussemburgo e Lettonia, che dal 1° gennaio aderirà alla moneta unica) riusciranno a rispettare il limite del 60% del Pil previsto dal Patto di stabilità.
La performance
Quest’anno, secondo l’Esecutivo europeo, spetta ancora alla Grecia, alle prese con il piano di salvataggio targato Ue e Fmi, la maglia nera del debito, che sarà pari al 176,2% del Pil. L’Italia è al secondo posto con il 133%, in rialzo di sei punti rispetto al 2012, seguita da Portogallo (127,8%) e Irlanda (124%). Cipro, impegnata nel soccorso al suo sistema bancario con gli aiuti internazionali, supera invece il Belgio, dove l’alto debito è una piaga decennale. Ai soliti noti ai aggiungono però altri Paesi. Tra i big il fardello diventa più pesante anche per la Spagna, che veleggia verso il 100%, e la Francia, che ha superato il 90 per cento. La maglia rosa spetta all’Estonia, con un debito al 10% del Pil, in lieve aumento però rispetto al 2012. Solo la Germania registra un calo dell’1,4 per cento.
«Questa performance – spiega Silvio Peruzzo, senior European economist di Nomura – è il risultato di un circolo vizioso di alto deficit e bassa crescita. Le politiche fiscali restrittive hanno contratto la domanda e ridotto ancor di più il Pil. La crisi, con il conseguente aumento della disoccupazione, ha poi costretto i governi a mettere mano al portafoglio, con un forte ricorso agli ammortizzatori sociali. Alcuni Paesi pagano poi il conto della ristrutturazione del sistema bancario».
Il quadro sarà a tinte fosche anche nei prossimi anni. Secondo un rapporto del Ceps in via di pubblicazione, infatti, fino all’orizzonte del 2030 il mix tra invecchiamento della popolazione e domande stagnante continuerà a esercitare una pressione sulle finanze pubbliche e renderà difficile la riduzione del debito.
«Nemmeno Berlino – precisa l’economista del think tank Cinzia Alcidi – è al sicuro, perché dovrà fare i conti con una diminuzione dell’offerta di lavoro e non sfuggirà all’invecchiamento della popolazione».
Come fare per invertire la rotta? «I Paesi con debito più alto – risponde Fabio Fois, Southern European economist di Barclays – hanno una serie di strumenti a disposizione: tagli selettivi alla spesa, privatizzazioni e riforme strutturali per aumentare il potenziale dell’economia».
Alcuni le hanno previste nei budget per il 2014, già valutati da Bruxelles a metà novembre. Come l’Italia, che venerdì scorso ha incassato il via libera dell’Eurogruppo. Il ministro Fabrizio Saccomanni ha spiegato che «al netto dei pagamenti della Pa e del contributo al fondo salva-Stati il debito non è cresciuto».
«Spagna, Portogallo e Irlanda – ricorda Fois – soffriranno più di altri, perché ancora alle prese con un significativo aggiustamento di bilancio. Per la Francia l’esito del piano di riduzione della spesa è ancora incerto. A Roma il piano Cottarelli è sulla buona strada. L’indicazione di un’agenda della spending review è positiva, ma lo scoglio più impervio sarà l’approvazione da parte del Parlamento. Gli ultimi sviluppi sul fronte politico sembrano però suggerire una maggiore capacità di attuazione da parte del Governo».
Le nuove regole
La strada sarà in salita, soprattutto per i Paesi che come l’Italia si trovano nel cosiddetto “braccio preventivo” del Patto di stabilità, con un deficit sotto il 3% del Pil. Per loro il focus si sposta sul cosiddetto «criterio del debito». La méta da raggiungere diventa un livello al 60% del Pil, fissato dal Trattato di Maastricht vent’anni fa e diventato uno dei pilastri portanti del Patto di stabilità. Il conto alla rovescia partirà con una tempistica diversa a seconda dei casi. Roma, che è uscita dalla procedura di deficit eccessivo a luglio, nel triennio 2015-2017 dovrà ridurre lo stock al ritmo medio del 4,5% circa. Saranno però validi alcuni «fattori rilevanti» – come l’indebitamento privato e il contributo ai salvataggi dei Paesi in difficoltà – che potranno attenuare la portata delle misure correttive. In attesa di quella data è previsto un periodo di transizione in cui il Paese sotto sorveglianza deve compiere «progressi sufficienti».
La valutazione della Commissione Ue, che dovrà poi passare al vaglio del Consiglio Ecofin, non si baserà in questo caso su criteri numerici, ma su aspetti qualitativi. «L’obiettivo di un debito al 60% – afferma Alcidi – sarà impossibile da raggiungere per tutti i Paesi, così come la nuova regola di un ventesimo sarà difficile da rispettare».
Secondo l’economista Giulio Sapelli, «una soglia stabilita arbitrariamemente non ha senso, perché non esiste un unico governo economico nell’area euro. L’unica soluzione è dunque rinegoziare i Trattati. La storia economica insegna che il debito pubblico non rappresenta un freno per l’economia, come dimostra l’esperienza più recente del Giappone. È chiaro però che bisogna ridurre gli sprechi, ma la strada maestra per uscire sta nella qualità della spesa, per far ripartire gli investimenti e scommettere sulla crescita».