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 2013  novembre 25 Lunedì calendario

DAL GIAMBELLINO ALL’OSCAR SCUSATE SE È ABATANTUONO


Diego si racconta in un libro di aneddoti e ricordi: da Volontè a Penelope Cruz. La storia del ragazzone che faceva il pugliese e pugliese non era: 70 film da bulimico del cibo, e della vita. Con il terrore della notte
È sera, il momento peggiore: “Il giorno, con la sua luce, è un tempo da godere intensamente. Il tramonto è un passaggio rapido. Un trapasso dolcemente malinconico prima della notte che da sempre mi terrorizza. Inconsciamente, fin da piccolo, la associo alla fine e la ragione per cui vado a dormire tardissimo, credo risieda proprio in quel buco nero. Se faccio finta che non esista e mi illudo resti solo una parentesi, mi fa meno paura”. Per colmarne i vuoti, Diego Abatantuono mangia. Paste fredde, minestroni intirizziti, avanzi di arrosto. Mangia in piedi, di nascosto, in esplorazioni silenziose e furtive. Non è sempre stato così. La sua trentennale compagna, Giulia, dopo aver recintato l’unione con il matrimonio ha messo filo spinato e lucchetti a custodia degli obbiettivi sensibili. Frigo, ghiacciaie , dispense. Lui ha imparato a riderne, a contenersi con sofferenza e a indossare grembiuli in cui l’autoironia riscrive Giovenale e diventa slogan, autoscatto e manifesto esistenziale: “Mens sana in corpore obeso”. Al signor Abatantuono, “il pugliese non pugliese più famoso di Puglia” nato nello stesso giorno di maggio di James Stewart e Al Bano, avevano chiesto un acuto. Un libro di ricette. Lui ha ribaltato il piatto, cucinato la sua vita, parafrasato anche De Sica e dato alle stampe (con Mondadori Electa e la preziosa collaborazione di Giorgio Terruzzi) “Ladri di Cotolette”. Quasi 200 pagine di memorie e confessioni legati al cibo, all’amore e all’amicizia dai set di tutto il mondo. Il Brasile, il deserto, la Grecia, l’Africa, il Salento e il misterioso Po. E al centro della scena, quasi tutti i 70 film di Diego. Le fughe, gli equivoci, i momenti di abbandono, i litigi, le gaffes, le emozioni. Roma, imbrunire umido. Al tavolo del suo ristorante preferito, circondato dal socio Maurizio Totti , da Fabio De Luigi e dall’autore di “Il peggior Natale della mia vita” Alessandro Genovesi, compagni di strada a vario titolo di “Soap opera” in uscita nel 2014, la pausa è l’occasione per nutrirsi ancora. Mezza porzione di spaghetti presto abbandonati per raccontare. Il Van della produzione passerà la mattina seguente, al-l’alba. Diego si lamenta del tempo tiranno e detta il programma: “Tra un’ora tutti a dormire”. Ne passeranno tre. Abatantuono parla ancora. Un alfabeto personale. Adesso, mentre in giro circolano solo camion della Nettezza Urbana, è alla erre di Renzo. “All’epoca in cui Arbore frequentava il Derby, una sera si fermò a salutare mia madre”.
Guardarobiera del più importante locale di Cabaret di Milano.
Renzo le chiedeva chi fosse il ragazzone alto che lo aveva fatto ridere e mamma non capiva: “Ma lei intende Boldi, forse Maurino di Francesco?”, “No, signora, io intendo quello con i baffi”, “Ma chi? Mio figlio Diego? Ascolti me, lasci perdere, quello è un deficiente”. Tentava di proteggermi da un insuccesso, per me sognava un lavoro vero. Quelli che si erano illusi per non ottenere nulla, li conosceva bene.
Ma su di lei sua madre aveva torto.
Arbore mi prese per il Pap’occhio, ma mamma Rosa aveva ragione su tantissime altre cose. Con lei da ragazzino andavo al cinema. “Ghe un bel cappa e spada” diceva e una volta dentro, su poltrone da fachiri, era tutto un duello. Maciste, Ercole, i Moschettieri. Io mi divertivo, sulla sua passione cinefila non giurerei.
Come si chiamava il cinema?
Araldo. La sala della mia infanzia era in Via Lorenteggio. Quasi ai confini della città. Seduto sulla canna della bici, ci passavo davanti con mio nonno Paolo, imbianchino. Andavamo insieme in osteria, a volte imbottigliavamo il vino in cantina. Io succhiavo le cannule per filtrare e qualche sorso ci scappava. In famiglia erano tutti felici: “Senti come ride Diego con suo nonno”. Ridevo per forza. Mio nonno era simpatico e un goccio aiutava.
Con i suoi colleghi cena?
Sul set quasi sempre, ma a volte di ristoranti non c’è traccia. In “Per amore solo per amore” di Veronesi, io, Haber, Amanda Sandrelli e Penelope Cruz capitiamo in un meraviglioso nulla tunisino. Per dormire chiedo un camper e mi danno una roulotte lillipuziana. Dovevo entrarci carponi, la temperatura era insopportabile e accendere la ventola mi esponeva a un notevole rischio decapitazione. Così mi impunto, mi procurano il camper e alla fine, diventa una comune. Ci ritrovavamo lì per mangiare ‘amatriciane e cacio e pepe. Il luogo era inadatto, l’ambiente umano stupendo.
Sul set c’è la dittatura del cestino.
Solo per chi è disposto a sottomettersi. Con alcuni congiurati scelgo una bettola di riferimento e se non mi avvelenano, durante la lavorazione sono abbastanza fedele. La fondamentale importanza della pausa postprandiale l’ho imparata da Villaggio. Ci è capitato spesso di dividere il mestiere e nelle scene programmate nel primo pomeriggio, scientificamente, il nome di Paolo non c’era mai. Purissimo dolo villaggesco doc. Per “Fantozzi contro tutti” eravamo di stanza a Testaccio. Il carnevale delle trattorie. Lì ce n’è una a ogni angolo e Villaggio le conosceva tutte.
Insieme avete fatto “Camerieri”.
L’ho visto con i miei occhi aggredire una peperonata surgelata alle 4 di mattina. Con lui e con Tognazzi mi sono divertito moltissimo.
Qualcuno sosteneva che lei somigliasse a Ugo.
Lo diceva suo figlio Gianmarco e a Pupi Avati, accadeva spesso di chiamarmi con il suo nome. Con Ugo ci conoscemmo all’epoca del Derby e poi lavorammo insieme in un paio di film.
In “Ultimo minuto” - sempre Avati alla regia - lei e Tognazzi affrontaste il mondo del calcio.
Che è cattivo, spietato e cinico esattamente come nel film. Da Ugo che era un gran cuoco e a volte esagerava chiedendo i voti ai commensali a fine cena, si andava spesso in compagnia. Apriva generosamente la casa di Torvaianica ed era subito mucchio selvaggio. Una sera invita me e Ugo Conti, il mio amico storico.
Solo voi due?
Solo noi due. L’atmosfera è diversa dal solito. Tognazzi si è chiuso per ore in cucina ed è visibilmente orgoglioso: “Il pezzo forte è il dolce, ma non voglio rivelarvi niente, non l’ha fatto un pasticciere, è opera di uno scultore.” Arriva il primo. Un risotto ai gamberi blu come il mare. Ci irrigidiamo, ma Ugo spiega che il trucco è in qualche goccia di Metilene. Divoriamo e passiamo oltre. Foglie di Salvia fritta e carpaccio.
E il dolce?
Il cameriere, vagamente gay, vestito come Mammy, la governante di Via col Vento, spinge un carrello con alcuni tranci di panettone malridotto. Tognazzi sbianca. Poi si alza, urla, bestemmia, lo insegue. Quello capisce di aver fatto una stronzata e corre a perdifiato. Tognazzi gli va dietro in cerca di giustizia. Il panettone, originariamente cotto a forma di tacchino per stupire gli ospiti, era stato deturpato irrimediabilmente. Mi offrii come scudo umano per evitare il peggio.
Le avventure le ricorda tutte?
Scrivo anche per questo. Per fissare i ricordi, dare un luogo alla memoria, non dimenticarmi di quando in Africa prendevo aerei sui quali oggi non metterei mezzo piede.
Troppo piccoli?
Al momento di saltarci sopra, con voce funerea da orazione post-sciagura, Marco Risi, il regista de “Nel continente nero” faceva l’appello nominale per la missione suicida. Sotto di noi, troppo vicini, passavano pozzi, campi e alberi enormi. Poco sopra si pregava. Nelle mani di un pilota con un solo dente che quando sorrideva lasciava senza fiato. Per trovare il campo d’atterraggio stendeva sulla cloche una cartina più grande dell’aereo, non restava che affidarsi a dio. Una volta, per disperdere un branco di zebre, scese in picchiata e risalì per tre volte. È strano essere qui e poterlo raccontare.
A quasi 60 anni, gli spot, il teatro, la sua prima regia, il film natalizio di Brizzi, il prossimo di Patierno “La gente che sta bene”, una fiction, “l’assalto”, per Ricky Tognazzi. La dipingono pigro, ma lei non conosce soste.
Un conto è essere pigro, altro è farmi il mazzo come ho sempre fatto fin da adolescente. Comunque sto lavorando per il futuro e intanto, con alcuni amici, ho aperto “Meatball family”, una polpetteria a Milano. C’è il mio faccione stilizzato, il pienone fisso, i miei figli lo frequentano come io da ragazzo frequentavo il Derby. Un po’ mi commuove e un po’ mi fa pensare a quando 18 anni, maledizione, li avevo io. Se penso che le polpette, anzi i “pruppetti”, le mangiavo con Volontè ho già fotografato il tempo che è passato.
Eravate protagonisti dell’ultimo film di Luigi Comencini.
Si intitolava “Il ragazzo di Calabria”. Gian Maria era il mio idolo. Comunista, incapace di mediazioni, dotato di un’ironia sottilissima e di un nascosto, misterioso umorismo. Comencini che adoravo, mi aveva fatto piangere con “Incompreso”. Volontè mi fece ridere dopo un corteggiamento estenuante perché era strano, conosceva il modo di confrontarsi, trovava sano litigare per un princìpio e aveva un carattere tutt’altro che semplice. Un giorno mi sveglio e non trovo più le mie scarpe. Le cerco ovunque, impreco e poi, sul set, le vedo ai suoi piedi. Lui mi osserva invocando implicitamente una reazione. Io taccio. Lo frego. Rido. Lo conquisto. Da quel momento fummo amici. Manca, come tante altre persone speciali.
Il cinema di ieri ha un’atmosfera molto diversa da quella di oggi?
Dipende. L’ultimo film l’ho fatto con Brizzi. Fausto è molto intelligente e mi sono divertito molto. Altre volte va meno bene, ma se leggi le situazioni con la lente del pregiudizio, sbagli in partenza. Mi piacerebbe essere come il grande Gigio Alberti che non risulta aver mai litigato con nessuno in 57 anni di vita. Prenda Giuseppe Cederna. Da Marrakech a Mediterraneo abbiamo condiviso viaggi e film epocali, ma all’inizio ci stavamo cordialmente sui coglioni. Le cose cambiano. Oggi siamo ottimi amici.
Hanno definito Salvatores il regista del viaggio, ma prima di Marrakech aveva viaggiato pochissimo.
Questo non lo so, ma so che io e Gabriele facemmo la tratta due volte. La prima in macchina per i sopralluoghi. Da Milano a Erfoud, passando attraverso la Costa Azzurra, Barcellona, i villaggi western dell’Almeria e il traghetto per il Marocco. La seconda in pullman con tutta la troupe. Non più di 20 persone. Idea fantastica. Cementavamo i rapporti attraverso l’epica del road movie. Se ogni film restituisse quel che mi ha dato Marrakech, il cinema sarebbe ancora più straordinario di quel che è. Peccato che così, tutti insieme appassionatamente, si lavori solo quando il budget è meno di un’ipotesi.
Di Mediterraneo ha memorie simili?
L’isola di Kastellorizo era praticamente sconosciuta. Lontana dalle rotte. Incontaminata. Al di là dell’Oscar e delle soddisfazioni successive, quelle greche furono settimane indimenticabili. Io e Ugo Conti organizzammo instancabilmente la convivialità. Cantavamo canzoni anni Settanta nell’unico bar dell’isola, il Meltemi. C’erano i Mondiali e brigammo per l’acquisto di un tv. Inventammo una serie di tornei di calcio e “Futevoley”, una pallavolo giocata con i piedi che poi rividi in Brasile al tempo del “Barbiere di Rio” . Di quella felicità diffusa, sul set, eravamo i motori e godevamo del godimento altrui. Come nei versi di De Gregori, andava tutto bene. Tutto fino all’ultima sera.
Cosa accadde l’ultima sera?
Ci eravamo dati appuntamento con gli abitanti all’ora di cena per festeggiare insieme nella piccola piazza del paese la fine del film. Nel pomeriggio, io e Conti, andiamo a dormire, ci risvegliamo tardi e ci accorgiamo che nessuno è venuto a chiamarci, a vedere come stessimo, a sincerarsi della nostra assenza. Scendiamo preoccupati perché - pensiamo - per non essere stati chiamati deve essere accaduto qualcosa di grave. La cosa grave invece era proprio che non fosse successo niente. Li trovammo tutti felici, placidi, sereni. Rimanemmo di merda.
Che spiegazioni le diedero?
Giustificazioni evasive, superficiali, insoddisfacenti. Ci pensai a lungo e alla fine una spiegazione me la diedi io. Sui set mi si nota. Sono esuberante, vitale, allegro e sul lavoro provo a divertirmi e a coinvolgere chi è con me. Ci sono attori che sognano solo che il lavoro finisca ed esistono quelli che lo amano a tal punto da augurarsi un prolungamento dell’ipnosi. Io sono tra quelli, soprattutto in film come “Mediterraneo”. Una festa quotidiana. Può darsi che in quell’occasione, non vedendomi, qualcuno che mi soffriva caratterialmente, abbia evitato di far notare la mia assenza. Anomala e assolutamente inspiegabile alla festa finale. Mi dispiacque, ma c’è di peggio.
Anche di meglio.
Se è per questo, di molto meglio. Mia moglie Giulia. I miei figli, Marta, Matteo e Marco. Gli amici di una vita, tutte le famiglie allargate della mia esistenza disneyana, La mia rete di affetti capace di brillare e sostenersi nelle differenze. Gabriele Salvatores, per dire, oggi è il compagno della mia ex moglie Rita.
Nel libro lei racconta un episodio significativo. In viaggio ci sono sua figlia Marta di 5 anni e Salvatores. A un tratto, la voce della bambina chiede a Gabriele: “Cosa vuol dire frocio”?. Il regista spiega gentilmente che frocio non dice: “È un termine improprio per definire un uomo che non è attratto dalle donne, la parola giusta sarebbe gay”. Ricorda?
Marta domandò di nuovo: “Ma a te piace la mamma?”. Gabriele, sorpreso, replicò: “Ovvio” e Marta, definitiva, tirò fuori l’innocenza dell’età: “E allora perché papà dice che sei frocio?”. Tra noi, di questa cazzata tenera e goliardica, ridiamo ancora oggi. Siamo fortunati e piangerci addosso ci annoia. Comunque sa cosa le dico?
Cosa?
Sarà contento Gabriele della scelta dell’aneddoto.