Alberto Stabile, Affari & Finanza 25/11/2013, 25 novembre 2013
IRAN, UNA “PAX” AMERICANA DA 50 MILIARDI
Teheran Succede sempre così, quando di mezzo ci sono le sanzioni: la gente comune soffre e prega che finiscano, gli speculatori si arricchiscono e i governi colpiti ondeggiano tra minacce e aperture diplomatiche. L’abbiamo visto con l’Iraq di Saddam Hussein, lo stiamo vedendo con il nuovo Pericolo mondiale n.1, l’Iran degli Ayatollah. Un paese che potrebbe riposare sugli allori garantiti dalle sue immense riserve di gas naturale, le seconde al mondo dopo quelle della Russia, e di petrolio, le quarte del pianeta, e invece si ritrova in ginocchio, isolato e costretto a barattare con la comunità internazionale il suo ambizioso, anche se non necessariamente bellicoso, programma nucleare, in cambio di un allentamento del nodo scorsoio che lentamente lo sta strangolando. Perché questa, senza alcun dubbio, è la ragione che ha costretto il nuovo leader iraniano, il riformista Rouhani, succeduto all’intransigente Ahmadinejad, a raccogliere la “mano tesa” da Obama, accettando di sedersi al tavolo del negoziato di Ginevra. Da un lato un presidente americano desideroso di concludere il suo doppio mandato, finora ricco di promesse ma assai scarso di frutti concreti, con un accordo storico capace di disinnescare una delle grandi minacce del nostro tempo (anche se Teheran ha sempre smentito che il suo programma nucleare punti a fabbricare la bomba atomica); dall’altra un leader iraniano consapevole del fatto che le sanzioni stanno spingendo il suo paese alla rovina. Ci sono voluti molti anni prima che i vertici iraniani ammettessero
e pubblicamente denunciassero gli effetti devastanti del boicottaggio subito dalla comunità internazionale. Per molto tempo la propaganda di regime è riuscita a nascondere le piaghe provocate dalle misure economiche inflitte al paese, trasformandole, se mai, in combustibile per la retorica antiamericana e antioccidentale. Tutt’ora, come si è visto pochi giorni fa in occasione del trentaquattresimo anniversario dell’occupazione dell’ambasciata americana di Teheran, apice della rivoluzione khomeinista, lo slogan “Death to America”, è molto diffuso in certi settori della teocrazia iraniana. Ma mentre la Tv di stato mostrava le folle in corteo alzare i pugni minacciosi verso quel simbolo ormai vuoto della sovranità americana, gli uomini del ministro degli Esteri Mohammed Javad Zarif cercavano di riannodare i fili del negoziato con il cosiddetto P5+1 (vale a dire i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza più la Germania) interrotto a causa della ferma opposizione israeliana fatta propria dalla Francia. Di più, secondo il Financial Times, da settimane gli inviati del Ministero del Petrolio fanno balenare agli occhi dei potenziali partner stranieri contratti molto più vantaggiosi di quanto non fossero stati in passato, invitandoli ad investire nei disastrato settore petrolifero, come se l’embargo che ha ridotto ai minimi termini l’output iraniano, dai 2 milioni e mezzo di barili al giorno del 2011 ai 750 mila barili al giorno del settembre scorso fosse già acqua passata. Fiducia nell’esito positivo della trattativa di Ginevra? O mossa disperata per cercare di mettere un po’ di fieno in una cascina disperatamente vuota? “Con meno di due milioni di barili al giorno l’economia iraniana muore”, dicono gli esperti. Si fa presto, infatti, a quantificare gli effetti dell’embargo petrolifero deciso prima dagli Stati Uniti e, a partire dal 2006, imposto ed esteso da una serie di risoluzioni Onu. I ricavi provenienti dalle vendite di petrolio (l’80 per cento delle entrate del bilancio dello Stato) sono diminuiti del 40%, provocando una perdita secca di 50 miliardi di dollari nelle casse del Tesoro. Valuta pregiata, dunque, destinata, al commercio con l’estero di cui l’Iran, carente nel settore della trasformazione, ha disperatamente bisogno. Uno dei motivi di vanto del governo di Ahmadinejad erano le riserve in valuta per oltre 100 miliardi di dollari che avrebbero fatto da scudo all’economia iraniana. Ora si calcola che queste riserve sono scese a 80 miliardi di dollari, ma quel che è peggio è che solo una frazione di questo danaro può essere utilizzato per finanziare le importazioni, e comunque può essere speso soltanto per le importazioni provenienti da paesi come la Cina e l’India che non si sono allineate alle misure prese dall’Occidente. Adesso che anche i Loyds di Londra si sono associati all’embargo, nessuna petroliera adibita al trasporto del greggio accetta commesse iraniane senza copertura assicurativa. Il peggio è arrivato dopo il 2011 quando anche l’Europa si è unita alla strategia americana aggravando il boicottaggio dell’economia iraniana con una serie di restrizioni finanziarie che di fatto impediscono alla Banca Centrale iraniana qualsiasi operazione in valuta e vietano ai potenziali interlocutori occidentali di avere rapporti d’affari con le banche iraniane. Le quali sono state cancellate dallo Swift, il network interbancario globale che permette alle istituzioni finanziarie di svolgere qualsiasi transazione internazionale con un semplice click. La messa sostanzialmente fuorilegge del sistema bancario e assicurativo ha costretto gli operatori pubblici iraniani a pagare i fornitori in oro (via Turchia) o in Rial che nessuno vuole, o a ricorrere al baratto: petrolio in cambio di pezzi di ricambio cinesi per l’industria automobilistica. Quindi, paralisi delle importazioni, ristagno della produzione industriale, speculazione pazzesca sul cambio dollaro-rial, mercato nero imperante, perché la gente riesce sempre a procurarsi ciò di cui ha bisogno, inflazione al 27% e persino penuria di generi alimentari essenziali come la carne o il pollame: “Siamo diventati vegetariani involontari”, è una battuta ricorrente per le strade di Teheran. Una stretta feroce che, esattamente come succedeva in Iraq al culmine di 13 anni di sanzioni, non risparmia i più deboli: gli 85 mila malati di cancro che hanno bisogno di farmaci chemioterapici, i 45mila emofiliaci, i 23mila affetti dall’Aids, costretti a usare medicine provenienti da paesi che non si possono considerare all’avanguardia.