Adriano Bonafede, Affari & Finanza 25/11/2013, 25 novembre 2013
GIARDA IL BANCHIERE “POSSIBILE MANTENERE IL PRINCIPIO COOPERATIVO E FAR FUNZIONARE BPM”
«Sì, io ci credo. È possibile coniugare il principio cooperativo proprio di tutte le popolari con un corretto funzionamento della Bpm». Una bella scommessa per Piero Giarda, quella di guidare la lista che alla prossima assemblea del 21 dicembre si scontrerà con quella dell’ex premier Lamberto Dini per la supremazia alla Popolare di Milano. E spiega: «Le principali banche cooperative sono collocate in Lombardia, in Veneto e in Emilia: ci sarà pure una ragione per cui questi istituti si sono sviluppati nei territori più ricchi del paese. Chi critica facilmente questo sistema dovrebbe porsi questa domanda ». Certo, non si può negare che ci siano stati comportamenti non idonei, «ma questi ci sono stati anche in normali spa». La sfida è ardua, ma Giarda dimostra in questo modo di essere un uomo ambizioso. Non per quello che ha fatto finora. E dire che ne ha fatte di cose. Professore universitario alla Cattolica di Milano (dove peraltro si è laureato nel 1962). Studi successivi a Princeton e ad Harvard, dove ha imparato (raro per la sua generazione) a parlare un perfetto inglese. Presidente della Commissione Tecnica per la Spesa pubblica dal 1986 al 1995 (corsi e ricorsi storici: dal 2012 è incaricato di focalizzarsi sulla spending review). Dal 1995 comincia la ’carriera’ governativa (non politica, si badi bene): dal 1995 al 2001 è sottosegretario al ministero del Tesoro. Ma è con il governo tecnico di Monti che viene nominato, a fine 2011, ministro
per i Rapporti con il Parlamento con delega al Dipartimento per l’attuazione del programma. In linea con tutto ciò, l’identità percepita su Internet di Giarda è prevalentemente istituzionale (80% fra governativo e accademico), secondo l’istituto Reputation Manager. Un uomo con questo cursus honorumha già realizzato molte ambizioni e oggi potrebbe soltanto godersi la sua conquistata alta reputazione. Eppure, paradossalmente, è soltanto adesso che si misura la sua vera ambizione. Per dimostrare che il caso Bpm può essere riportato alla norma-lità, Giarda accetta di farsi banchiere. Del resto ha fatto già un po’ di pratica su questo fronte. Nella sua lunghissima lista di incarichi ricoperti, Giarda può annoverare anche la presidenza dell’ex Banca Popolare Italiana dopo il default creato dal finanziere Fiorani: un ruolo non facile perché si doveva trovare una soluzione all’istituto che tanti guai aveva combinato. Insieme all’amministratore delegato, Divo Gronchi, Giarda ha traghettato la Bpi al matrimonio con la Popolare di Verona, da cui è nato il Banco Popolare. Giarda è poi rimasto quale vicepresidente del nuovo istituto e infine consigliere fino al novembre 2011. Non basta però diventare banchiere. Le differenze rispetto al passato sono notevoli. Alla Bpi c’era da trovare, sotto lo sguardo vigile di Bankitalia, un buon partito per una fusione inevitabile, unica alternativa al fallimento puro e semplice. Qui, invece, c’è da trovare una soluzione a un rebus che si è dimostrato finora insolubile: una governance che funzioni tanto da far tornare l’istituto al livello che merita, visto che opera in una delle zone più ricche d’Europa. Ecco qui la scommessa di Giarda, che ha accettato di entrare nella fossa dei leoni dell’assemblea di una delle più tempestose popolari con una sua lista autonoma. Una banca anomala, dove i sindacati dei lavoratori hanno in passato fatto il bello e il cattivo tempo, imponendo amministratori delegati, consiglieri, ma anche assunzioni, avanzamenti di carriere e prebende varie. In una parola, un inestricabile groviglio dove i controllati erano anche controllori. Finché il giocattolo non si è rotto e Bankitalia ha imposto un primo cambiamento introducendo il sistema duale, con la distinzione tra Consiglio di sorveglianza, dove siedono i rappresentanti dei 55 mila piccoli azionisti, e Consiglio di gestione, a cui spetta il comando. Lo scioglimento di quel magma di interessi autoreferenti raccolto sotto l’egida di ’Amici della Bpm’ ha aperto prima una sfida tra due liste contrapposte, raccolte l’una intorno a Matteo Arpe e a Marcello Messori e l’altra intorno ad Andrea Bonomi di Investindustrial, che nel 2001 l’aveva vinta ed è andato avanti per due anni. Finché anche lui non ha dovuto gettare la spugna di fronte al ri-coalizzarsi degli interessi lesi ma mai completamente sopiti che lo hanno messo in minoranza. La sua proposta di utilizzo del voto a distanza, che avrebbe potuto gettare le basi per una modifica dello Statuto in modo da dare maggiore peso ai soci di capitale, trasformando l’istituto in una ’Spa ibrida’, è stata respinta all’assemblea dello scorso aprile quasi all’unanimità. La presidenza di Bonomi è così entrata in stallo a causa della distanza siderale fra desideri e realtà. Il recente ingresso nel capitale del controverso finanziere Raffaele Mincione, in tandem con l’ex primo ministro, ex direttore generale di Bankitalia ed ex ministro del Tesoro Lamberto Dini, è stata la logica conseguenza di un riaprirsi della contesa sulla governance. Intorno a Mincione e a Dini, che pur ha fatto dichiarazioni in merito alla possibilità di trasformare la banca in Spa, ’ma solo con l’accordo dei dipendenti soci’, si sarebbero raccolti ex esponenti dell’Associazione Amici della Bpm, che in passato si era sempre opposta a ogni modifica dello Statuto. E Giarda? Lui neanche ci pensava alla Bpm, impegnato com’era nella preparazione della sua prolusione all’inaugurazione dell’anno accademico della Cattolica, in cui ha anticipato i risultati del suo prossimo, sudatissimo, libro: una meticolosa ricostruzione di duecento anni di rapporti finanziari fra Stato ed enti locali in Italia. Poi la svolta. «Mi sono venuti a trovare i rappresentanti di due delle quattro sigle sindacali nazionali, a cui si è poi aggiunta la Confartigiananto, interessata a un progetto che favorisse l’ingresso di nuovi stakeholders. Io ho fatto qualche ragionamento insieme ad alcune persone, ho fatto un po’ di conti e, visto l’appoggio di tutte e quattro le sigle sindacali, ho visto che c’erano le condizioni per accettare». Ma qual è il progetto di Giarda? Innanzitutto «il rispetto del principio cooperativo». Insomma, inutile perseguire, come ha fatto Bonomi, fallendo, l’idea di una svolta epocale con la Spa ibrida. Qui bisogna fare i conti con la governance che c’è, quella tipica delle popolari di una testa e un voto, che secondo Giarda può comunque permettere di trovare un assetto stabile all’istituto. Rimane comunque un quesito di fondo, che Giarda non scioglie a priori: l’anomalia della Bpm è endemica o è il risultato soltanto di cattivi comportamenti che possono essere eliminati? «La scommessa è di appurare se le nuove regole imposte da Consob e Banca d’Italia possano funzionare anche se la Bpm mantiene il suo carattere cooperativo ». Giarda sembra propendere per il sì, considerando anche i ’paletti’ posti dall’ultimo Statuto. «Ben 4 posti su 19 sono in mano, pariteticamente, ai rappresentanti dei fondi e dei soci industriali (Credit Mutuel e Cassa di Risparmio di Alessandria, Ndr). Qualunque lista vinca in assemblea, nonostante la maggioranza di 11 membri che avrà a disposizione, potrà nominare il Consiglio di gestione soltanto con il placet necessario di due di questi quattro voti (uno per categoria, Ndr)’. La via di Giarda è stretta, ma secondo lui transitabile. E il prossimo aumento di capitale da 500 milioni? Chi metterà i soldi? I 55 mila piccoli azionisti? O i fondi che già oggi controllano il 18% del capitale? Perché puntare ancora denaro su questa banca? «Per un semplice motivo: oggi le valutazioni di Borsa, intorno a 0,44 euro, sono un decimo di qualche anno fa. Chi partecipa oggi a un aumento di capitale fa una scommessa sulla futura redditività di una banca che opera in una delle più ricche aree italiane ». Una scommessa che si può vincere, almeno secondo Giarda l’Ottimista.