Stefano Carli, Affari & Finanza 25/11/2013, 25 novembre 2013
TELECOM, CHI BLUFFA AL POKER DELLA RETE PARTITA A DUE TRA TELEFONICA E IL GOVERNO
«Arriva un momento in cui la crescita del traffico dati sulla rete arriva al collo di bottiglia, è il momento in cui non bastano più gli aggiustamenti e gli investimenti marginali ma bisogna intervenire nel cuore dell’architettura. E quel momento sta arrivando». Francesco Caio, Mr Agenda Digitale, entro fine anno consegnerà al premier Letta i risultati della sua ricognizione sui piani di investimento nella banda larga da parte degli operatori, Telecom Italia in testa. Dovrà stabilire se sono sufficienti, in volumi e localizzazione, a permettere al Paese di raggiungere gli obiettivi posti per il 2020 dall’Agenda Digitale Europea. E’ l’ultima possibilità per mettere fine a uno stallo che sta paralizzando un settore strategico del Paese, motore e condizione dell’innovazione e della competitività. Uno stallo in cui perfino il management di Telecom Italia si è in sostanza tirato fuori, come lascia intendere la lettera che l’ad Marco Patuano ha inviato 10 giorni fa all’AgCom. E infatti ora la partita è tra il governo e Telefonica. Se gli investimenti promessi dagli spagnoli, non saranno ritenuti sufficienti Palazzo Chigi può avere la carta per programmare l’ingresso di Cdp nella rete Telecom. Non si chiamerà più “scorporo” ma solo “societarizzazione”. Il controllo resterà in Telecom. E stavolta dalla battaglia terminologica potrebbe venire fuori una soluzione vera. alle pagine
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D ieci giorni fa una comunicazione di Telecom Italia arriva all’AgCom, con la firma dell’ad Marco Patuano: “Andiamo avanti con il progetto presentato lo scorso 30 maggio – dice pressappoco – ma daremo precedenza alla equivalence of input”. Che vuol dire? Che Telecom si mette in secondo piano e lo comunica correttamente all’Autorità di vigilanza, a cui non aveva più dato notizie ufficiali dopo l’uscita di Franco Bernabè. E fa sapere che ora la partita è a due, tra il governo e Telefonica; e che il management non ha margini di manovra. Una partita che stavolta non potrà durare all’infinito o restare in stallo, come probabilmente vorrebbero gli spagnoli. Le uniche certezze, per ora, sono che Telefonica non vuole acquisire il 100% di Telco, la scatola che controlla Telecom Italia. Vuole tenersi a fianco i tre soci italiani, un po’ come ostaggi. E non vuole lo scorporo della rete. Sull’altro fronte c’è una parte del governo, capeggiata dal viceministro alle Comunicazioni Antonio Catricalà, che invece la separazione della rete la vuole fortemente e tiene in stand by la Cassa Depositi e Prestiti. Questa a sua volta tiene fermi i piani di Metroweb, che di fatto controlla attraverso F2i e Fondo Strategico. E sempre questo stallo frena gli investimenti delle altre telecom italiane: Fastweb ha annunciato altri 600 milioni di investimenti per far ripartire il cablaggio in fibra, Vodafone ne ha predisposti 3,6 miliardi nei prossimi tre anni, divisi tra fisso e mobile. La stessa Telecom Italia ne ha messi per 9 miliardi nel triennio, sempre divisi tra fisso e mobile. Ma fare piani non significa investire, e infatti è tutto fermo o quasi. Poi, certo, si fa manutenzione, si mette e qualche nuova antenna Lte, la banda ultralarga mobile, ma poco cambia. Il paese va sempre più in giù nelle classifiche europee della digitalizzazione: nella banda larga siamo sempre più in fondo, dovremo avere il 100% di collegamenti a 30 mega e il 50% a 100 mega entro il 2020 per rispettare l’agenda digitale europea e oggi abbiamo il 12% di collegamenti a 30 mega e quelli in fibra, i 100 mega, sono appena 2 ogni 100. Nella classifica dell’Ue a 27 siamo 25esimi, dietro di noi solo la disastrata Grecia e Cipro. Risultato? Gli utenti Internet sul totale delle popolazione sono riusciti a superare di poco il 50%. E l’economia stenta. La digitalizzazione delle imprese, che tanto peserebbe sulla competitività, va a rilento, anche chi vorrebbe investire nelle soluzioni cloud, che consentono grandi risparmi negli investimenti in hardware e software, spesso rinuncia per mancanza di connessioni (lo dicono sondaggi e ricerche di mercato). Abbiamo un tasso di natalità di start up digitali basso e questo non fa emergere i nuovi lavori. Nell’editoria la multimedialità avanza troppo lentamente e nella pubblicità online, l’unica in grado di far recuperare il terreno (e i ricavi) persi con gli ultimi due anni, siamo il fanalino di coda europeo e poco è mancato che non arretrassimo anche qui. E intanto siamo stati sorpassati dalla Russia. I colossi del largo consumo all’estero hanno scoperto l’efficienza della pubblicità profilata e online che infatti negli Usa vale già oggi il 30% di tutta la pubblicità online, in Gran Bretagna il 25%. In Italia il 4% (come spieghiamo alle pagine 42 e 43 di questo stesso numero di Affari & Finanza), per cui i signori di P&G o Unilever in Italia, se vogliono i grandi numeri, devono ancora rivolgersi alla tv (e spesso preferiscono l’alternativa di ridurre gli investimenti). E poi c’è tutto il capitolo dell’agenda digitale italiana, ovvero l’abbandono progressivo della documentazione cartacea: se solo l’Alpitour - e in un solo anno - ha risparmiato un paio di milioni tagliando drasticamente il numero di cataloghi cartacei si può immaginare cosa potrebbe risparmiare un intero Stato. Ma c’è un capitolo della digitalizzazione e delle nuove fibre che riguarda anche Telecom Italia. Gli stretti margini di manovra che il bilancio del gruppo telefonico lasciano al management sono un cappio al collo. Se per ipotesi Telecom potesse accelerare sulla fibra e avesse le spalle protette da “capitali pazienti”, ossia che non aspettano con ansia le trimestrali per ripagare i debiti ma possono invece muoversi su tempi di più ampio respiro, potrebbe ridisegnare la sua rete, cancellare – a spanne – una buona metà delle sue attuali 10.500 centrali telefoniche e, a regime, una metà di costi di manutenzione del rame che oggi si aggirano sul miliardo l’anno. E questo senza contare l’incremento di ricavi (e della parte di ricavi a maggiore marginalità) che potrebbe produrre. Ma per spostare risorse dall’opex al capex, che comporta anche anticipazioni di spesa, servono capitali nuovi. E qualcuno dovrà metterli. O Telefonica o qualcun altro. In questo scenario l’incarico dato dal premier Letta a Francesco Caio di fare una rapida ricognizione dello stato dell’arte, facendosi dire dai vari protagonisti dove hanno davvero e effettivamente investito e dove investiranno secondo i rispettivi piani, non serve solo a guadagnare tempo ma prova a giocare una carta che parla di soldi. Se lasciati agire sulla base dei rispettivi conti economici, è assai probabile che le telecom italiane nel loro complesso finirebbero per investire lentamente ma soprattutto tutte negli stessi mercati: le maggiori città, soprattutto del centro nord, i più ricchi distretti produttivi. Uno spreco di risorse per il sistema Paese. Sapere dove le telecom italiane stanno investendo sono informazioni che oggi non ha nessuno, nessuna autorità di controllo ha un quadro così dettagliato: vengono considerati segreti industriali e la cosa non è senza senso. Se Caio riuscirà a tracciare davvero la mappa di dove arriverà la banda larga italiana nei prossimi tre anni, fornirà al governo una carta decisiva. Se la mappa dovesse rivelarsi piuttosto povera, come tutti sospettano, ma senza prove, il governo avrà il punto di leva su cui poter appoggiare se ne avrà la forza - la decisione politica che farà uscire Telefonica dalla partita: la legge sull’Opa, il Golden Power o quel che sia. A quel punto, se Telefonica si sfila e si procede di corsa sulla societarizzazione della rete di accesso, la Cassa ne prende un 30% e porta i “capitali pazienti” da investire nella fibra. Ma è certa l’uscita di Telefonica? Non è detto: non essendo più manifestamente il socio di riferimento, potrebbe anche mantenere una quota diretta in Telecom Italia, “subire” suo malgrado la societarizzazione che non vuole e nel giro di qualche anno veder magari ridurre le minusvalenze accumulate sul titolo italiano. Ora la partita è politica e diplomatica. E linguistica: nessuno vuole fare più lo «scorporo». Ora si parla al massimo di societarizzazione. Sono la stessa cosa, ma in fondo noi italiani abbiamo molto in comune con gli spagnoli: il barocco e i gesuiti su tutto, e una differenza terminologica può fare molto. Insomma, nessun soggetto è oggi in grado di fare un passo indietro definitivo chi nell’una direzione (l’uscita definitiva per i soci italiani di Telco) o nell’altra, la presa di controllo totale in Telecom da parte di Telefonica). E in questo stallo è finita metà dell’economia italiana. Serve un catalizzatore. Il problema è se il governo, e poi “questo” governo trasversale, saprà esserlo. Un governo che è ancora prigioniero di ogni tipo di lobby, come d’altronde tutti quelli che lo hanno preceduto negli ultimi venti anni. Sono per esempio almeno cinque anni che si attende una normativa unica per gli scavi di posa della fibra ottica. Farebbe risparmiare molto tempo e denaro. Come farebbe risparmiare tra il 20 e il 30% dei costi “edili” poter usare le macchine per le microtrincee, grandi come tosaerba, che aprono, posano i cavi e richiudono. L’Anas non le vuole, come spieghiamo nel box qui sotto. E il paese va sempre più giù.