Emanuela Audisio, La Repubblica 25/11/2013, 25 novembre 2013
LA STORIA SIMEOLI MAESTRA SARA
MONTECARLO In volo con Sara e le sue sorelle.
Tutte lassù, sopra i due metri, nel club più vertiginoso del mondo. Quello dove devi salire e superare i cancelli del cielo. Per la prima volta tre regine del salto in alto insieme, a guardarsi in faccia, a confessarsi paure e certezze, a chiedere: ma tu come facevi? Tre padrone dell’aria: Anna Chicherova, russa, 2,07, Svetlana Shkolina, russa, 2,03, Sara Simeoni, italiana, 2,01 nel ‘78, record che nel mondo è durato quattro stagioni. Generazioni a confronto, madre e figlie. Sara vinse a Mosca nell’80, Jurassic Jump, le altre non erano ancora nate. Chicherova è dell’82, Shkolina dell’86. Fenicotteri esili, creature da Modigliani. Anna è alta 1,80, Svetlana 1,87, Sara con 1,77 è la più bassa. Tutte con lo stesso stile: il Fosbury. E con la Simeoni come apripista. Ma la Chicherova racconta che quando iniziò a saltare andò dal cubano Sotomayor, primatista mondiale con 2,45 e gli chiese: come faccio ad imparare? Javier gli rispose: fai come me, guarda questi fotogrammi e copia. I fotogrammi erano quelli della maestra Sara Simeoni che forse dovrebbe chiedere il copyright. E che ora spiega: «Dal ventrale passai al Fosbury, che prometteva di più, ma ora posso confessarlo: pensai di smettere. C’era ancora la sabbia nella buca e cadere di schiena faceva malissimo, l’asticella d’alluminio triangolare lasciava lividi pazzeschi. Urlavi di dolore ad ogni sbaglio e la sera eri piena di botte. Beate voi, ragazze mie, che avete i sacconi in gommapiuma. Io ero criticata per il mio stile disordinato, allargavo troppo il braccio, lo facevo per paura, per limitare i danni, fino a 1,85 riuscivo a non essere scomposta, poi me ne sbattevo. L’importante era staccare bene e salire».
Sara chiede ad Anna, che è madre di Nika: quanto pesi? L’altra: «56,300 kg. Se salti, devi perdere chili, essere molto al limite, basta qualche etto in più e a me iniziano a fare male caviglie e schiena». Commento di Sara: «Accidenti se sei magra. Io ho gareggiato per venti stagioni, da 13 a 33 anni. Sesta ai Giochi di Monaco con 1,85, seconda a Montreal con 1,91, oro a Mosca con 1,97, argento a Los Angeles con 2 metri. Alla mia prima Olimpiade pesavo 69 chili e all’ultima appena 57. Avevo il tendine gonfio e lo stomaco chiuso, non riuscivo a mandare giù niente. Ma ero e sono una ghiottona. E mio papà per forzarmi a fare risultato in allenamento si presentava con una scatola di cioccolatini e mi diceva: uno per ogni centimetro in più. Io proprio non riuscivo a motivarmi: in gara mi scatenavo, ma nel lavoro quotidiano non avevo spinta. Non ho mai saltato in allenamento più di 1,77, tanto che il giorno che ho scavalcato 1,95 ho capito che qualcosa era cambiato. Non avevo come hanno oggi mezzi sofisticati per il training, ci arrangiavamo con la cintura zavorrata piena di sabbia, la scarpetta di ferro e altre diavolerie. Voi avete questo vantaggio: più competizioni, più concorrenza, più sfide, ognuna può spingere l’altra. È bello trovare sempre stimoli. Li avessi avuti io, avrei potuto salire di altri due centimetri, a 2,03. Era una misura alla mia portata. Invece ero sola in un’epoca in cui gli avversari ci vedevano come nemici. Noi con la vecchia Ddr o Urss, appena ci sfioravamo in gara, ricordo che agli europei del ’78 ci dissero che la Germania Est era nella nostra stessa palazzina, qualche piano sopra di noi, ma io non ho mai incontrato nessuno. Con Rosemarie Ackermann ci scambiavamo gli auguri, tutto qui. Quando Primo Nebiolo nel ’78 ci portò in Cina, prima delegazione sportiva italiana, all’aeroporto ci accolsero in una stanzetta con il tè, alle pareti Mao e Marx. Ma fu un’esperienza meravigliosa in un mondo sconosciuto, oggi che tutti sanno e vedono i risultati degli avversari in tempo reale sul computer e non sanno cosa sia il mistero».
Non cambiano gli attacchi di panico davanti al salto nel vuoto nello stadio pieno. Le paure non hanno anagrafe. Svetlana Shkolina, bionda, gambe da modella, campionessa mondiale a Mosca: «Nella camera di chiamata ho avuto una brutta sensazione: non capivo chi fossi e perché ero lì. Ero nervosissima, io sono timida e la mia famiglia era allo stadio. Non mi ricordavo più i movimenti, cosa dovessi fare, ero terrorizzata, poi mi sono venute in mente le parole del mio allenatore: rilassati, e fai quello che sai fare. A 2,03 ho ritrovato l’energia e la fiducia, ma giuro che non mi ricordo niente di quel salto d’oro, solo che l’asticella era ancora lì».
Anche Sara ai Giochi di Mosca nell’80, con Erminio Azzaro, suo fidanzato e allenatore, seduto in curva, a fumare sigarette e a masticare nervosismo, andò in confusione. Lui era severissimo e i due spesso bisticciavano. «Entrai nello stadio e all’annuncio del mio nome mi prese un groppo in gola tremendo. Ci si può emozionare e non capire più niente. A me capitò. Non ci stavo più con la testa, misurai i passi in maniera sbagliata. Cos’è che non andava? Ad un certo punto sento la voce stizzita di Erminio che mi urla: dai, svegliati, la rincorsa è dall’altra parte. Ah, ecco perché non funzionava ».
L’incontro delle tre regine del volo organizzato dalla Iaaf finisce con la pioniera Simeoni, la prima con 2,01 ad andare sulla luna, che si prende il rispetto e l’ammirazione delle altre due. «Ci ha insegnato uno stile, indicato una strada, ma soprattutto tre medaglie in tre Giochi consecutivi significano costanza e voglia di durare». Certe orbite non smettono mai di girare.