Anna Bandettini, La Repubblica 25/11/2013, 25 novembre 2013
OPERA NEL CAOS
ROMA Gli applausi senza riserve alla generale di Ernani, ieri, sono la prova che la musica vive su un’isola intoccata, qualsiasi cosa succeda intorno. E intorno, all’Opera di Roma, c’è un gran caos dopo lo sciopero proclamato sempre ieri da una ottantina di lavoratori su 480 perchè non ci sono soldi per gli stipendi. Se confermato, verrebbe cancellata la “prima” di mercoledì (era anche annunciato in sala il presidente Napolitano) che inaugura una stagione già tesa e le repliche successive. Ma nulla è sicuro: fervono trattative per l’agognata pacificazione e «se il sindaco ci incontra, torniamo al lavoro», dicono i sindacati. Nel clima pesante e concitato, a dare fiducia è l’impegno, il magnetismo di Riccardo Muti, il suo lavoro, ancora ieri puntiglioso, serio con l’orchestra e il coro che giurano e spergiurano di non voler fare nulla contro “il nostro maestro”. «Anch’io mi auguro che non succeda nulla che possa fermare la fase di crescita intrapresa con loro», ha dichiarato il maestro, prima che lo sciopero fosse proclamato.
La preoccupa questa situazione di incertezza del teatro?
«Mi preoccupa se venisse interrotto il lavoro che abbiamo fatto finora. Con l’orchestra e il coro abbiamo lavorato bene in questi tre anni. L’orchestra ha raggiunto una sua identità e parlo di timbro, intonazione, colore del suono che non si inventa, è frutto di un lavoro. Ecco, se questo lavoro si fermasse, sarebbe un delitto per Roma».
Ma cosa potrebbe fermarlo? Nei giorni scorsi si era parlato di commissariamento, o forse no. Lei quale situazione auspica per il Teatro dell’Opera?
«Non sta a me trovare soluzioni. Certo, constato amaramente che in Italia le fondazioni liriche sono ciclicamente esposte a fasi di crisi per gli scarsi investimenti. Bisognerebbe coinvolgere di più i privati ».
E lei? Non è che potrebbe decidere di lasciare?
«Qui a Roma sono venuto chiamato per la prima volta da Veltroni. “Dammi una mano per risollevare il teatro”, mi disse. E questo ho fatto, credo. Certo, se non riuscissi più a lavorare bene come è stato finora potrei riconsiderare il mio ruolo qui. Ma sono fiducioso. E la musica farà la sua parte».
Non tutto è scongiurato: eseguire l’Ernanisarebbe un bel sigillo all’anno verdiano.
«Manca dall’Opera da 25 anni. Io stesso l’ho fatta una volta sola nell’82 per un 7 dicembre alla Scala prima che ne diventassi direttore nell’86. Ha bellissime pagine da melomani, a cominciare dal celebre “Si ridesti il leon di Castiglia”. Ma è un’opera difficile dal punto di vista vocale. A me piace perché è la prima dove Verdi si allontana dall’opera oratoriale, come Nabucco, e avvia quello scavo psicologico dei personaggi che porterà a Traviata, Rigoletto e le grandi opere. Mi commuove sempre quando penso che una persona come Verdi ebbe un filo diretto e profondo con la grande letteratura, Hugo, Shakespeare... elevandola a livelli universali con la musica, pur essendo rimasto un provinciale, un contadino, uno col fuoco dentro. Questa è l’italianità di Verdi che amo. Quando mette in musica espressioni del nostro parlato e racconta passioni, gelosie... Più lo studio più vedo Verdi nei personaggi di Verdi, maschi e femmine».
Che giudizio dà di questo anno verdiano?
«Mah, si sono fatte più opere di Verdi ma nessuno si è posto il problema dell’esecuzione. La scrittura verdiana ha una precisione scientifica, invece ancora sento cantanti o direttori che eseguendo Verdi dicono ’io lo sento così’ . Ma che senti?? Si fa di Verdi carne da macello, si fa ciò che non è permesso con Mozart, Strauss, Wagner: taglia qui, aggiungi lì... Perché? Perché come dice Alberto Sordi nel film Mi permette babbo? “si è sempre fatto così”. Frase mortale».
E allora come si fa?
«Io non posseggo la verità verdiana ma mi riconosco di essermi dedicato a Verdi attraverso Mozart, cioè attraverso il rispetto per la musica. Ho lottato per ricondurre Verdi alla nobiltà italica dei Michelangelo, Brunelleschi, Dante, Manzoni... Lui stesso ha combattuto tutta la vita perchè non gli cambiassero note e parole, ognuna pensata meditata per un preciso scopo drammaturgico. Se “La donna è mobile” diventa un ritornello hai perduto l’effetto della canzonaccia cantata dal duca nella taverna di Sparafucile ».
Ma così è diventato popolare.
«Popolare è una bellissima parola, ma anche pericolosa. Tutti vorremmo essere popolari ma se questo vuol dire porchetta, lambrusco e coro, no. Il pop non è approssimazione. E figuriamoci Verdi».
Lei l’ascolta la musica pop?
«Non ho molto tempo per farlo. E oggi mi pare che il pop vada verso l’estrema semplificazione, con frasi musicali al limite della banalità, del soporifero. Mi piace, e dirà che sono antico, Sergio Bruni per la finezza, perché sussurrava e non urlava proprio come deve essere eseguita la canzone napoletana. Diciamo che quando ho tempo, ascolto per imparare».
Imparare? E da chi?
«Dai grandi direttori. Ricordo un’ottava di Bruckner con von Karajan, il Lied von der Erde con Christa Ludwig, cose inarrivabili. Anche se, diceva Carlos Kleiber, si impara più da una pessima esecuzione perché per caso ci sono due battute venute bene e sono illuminanti».
Se non ci fosse la musica nella sua vita cosa ci sarebbe?
«Me ne starei in Puglia a coltivare erbe pugliesi. Non mi sono mai abituato al mondo della ribalta: alberghi, viaggi, cene... Sono più un animale da casa, io. Ho forzato la mia natura in questi quasi 50 anni di attività. È come se vivessi una perenne frizione tra quello che sono dentro e quello sono fuori. Dice che il risultato è ottimo? Non me lo spiego».