Vittorio Zucconi, La Repubblica 25/11/2013, 25 novembre 2013
IL GRANDE SATANA E LA CANAGLIA
SVOLTA storica o inganno la stretta di mano fra il “Grande Satana” e la “Canaglia”?
SESSANT’ANNI esatti dopo il colpo di stato angloamericano in Iran per imporre al paese il regime del Grande Pavone, il perno dell’“Asse del Male” e il “Grande Satana” americano tornano a comportarsi non da amici, ma almeno da governi razionali. Quella stretta di mano fra il Segretario di Stato americano John Kerry e il ministro degli Esteri iraniano Mohammad Javad Zarif non raggiunge il pathos storico ed epocale dell’abbraccio fra Sadat e Begin a Gerusalemme e non stempera in amicizia e fiducia reciproca due generazioni di odio, ma è il primo segnale che fra la nazione leader dell’Occidente laico e lo stato chiave della rivoluzione fondamentalista sciita più intransigente è possibile parlarsi. In fondo era questo ciò che Obama aveva chiesto nel suo discorso del Cairo al mondo islamico, costruito sul principio kennedyano del «parlare soprattutto con i nemici », ed è la stessa logica razionale che impedì lo scoppio della Terza Guerra Mondiale fra Usa e Urss.
Ma ancora più di quanto fosse stato difficile per americani e russi passare dalla sfida mortale di Cuba allo smantellamento degli arsenali nucleari, la feroce ostilità fra Iran e Usa aveva, e ancora ha, radici di irrazionalità mistica e di intolleranza culturale che neppure la Guerra Fredda aveva mai prodotto. Nel comunismo e nel capitalismo, le due potenze vedevano avversari ideologici, sistemi politici ed economici opposti, ma ancora alimentati dalla vecchia cultura materialista del marxismo- leninismo contro il liberismo e il mercatismo. Ma gli Stalin e i Truman, i Kennedy e i Kruscev, i Breznev e i Nixon fino ai Reagan e Gorbaciov erano dirigenti politici, persone che si muovevano lungo percorsi diversi e comprensibili. Di fronte alla rivoluzione khomeinista del 1979, alla presa e al sequestro — inauditi nell’età moderna — di un’ambasciata e di 52 funzionari per 444 giorni, di fronte a quei turbanti sopra barba fluenti, l’America, nata proprio dalla rigorosa speranza fra Stato e religione, era culturalmente disarmata.
Per più di 30 anni, dal 1979 all’accordo — ancora molto vago e poroso — di Ginevra fra Kerry e Zarif, il discorso impossibile fra l’America della Costituzione e l’Iran della Sharia è stato quindi, inevitabilmente, una sequenza di gaffe, di errori, di passi falsi. Fin dagli anni dell’agonia politica, e poi fisica, dello scià, il comportamento dei governi americani era stato ambiguo e incerto, dando agli iraniani solo messaggi sbagliati, sempre troppo prepotenti per i ribelli, sempre troppo deboli per i conservatori. Nelle ore finali del regime monarchico, il presidente Carter e il suo braccio destro Zbigniew Brzezinsky esortavano in pubblico Reza Palhavi a «resistere» e incitavano l’esercito, armato dagli Usa, a un possibile colpo di Stato per fermare la rivoluzione. Ma in privato, lo stesso Brzezinsky considerava lo scià «uno zombie» con le ore contate.
Toccò poi a Reagan, al quale Teheran aveva fatto il regalo della liberazione degli ostaggi per testimoniare il disprezzo verso Carter e il grottesco fallimento della tarda, dilettantistica operazione “Artiglio d’Aquila”, complicare la situazione cercando di utilizzare proprio il grande nemico in tonaca nera e turbante per finanziare e armare illegalmente i Contras anticomunisti che in Nicaragua volevano rovesciare i sandinisti. In un sensazionale pasticcio di armi vendute ai presunti e sempre immaginari “moderati” iraniani attraverso Israele per ottenere finanziamenti da passare ai Contras, vietati dal Congresso Usa, non mancarono momenti di comicità, come la torta al cioccolato destinata a Khomeini per addolcirgli la bocca.
L’Iran, dopo essere stato corteggiato, divenne così il perno dell’Asse del Male, surrogato a quell’Impero del Male, l’Urss, che si era autodistrutto. Nell’ossessione, nell’incomprensione di una nazione e di un regime che l’esperienza americana non riusciva a interpretare e a razionalizzare con i semplici criteri dei buoni e cattivi, fra i due paesi si arrivò alla guerra di sterminio per procura, quando Saddam Hussein fu incoraggiato appoggiato e aiutato proprio da Washington nella guerra all’Iran. I gas letali usati dal raìs per decimare le ondate di soldati bambini spediti contro di lui da Khomeini non sollevavano allora alcuna indignazione a Washington e in Europa. Anzi. L’intelligence americana forniva a Saddam le coordinate per condurre le battaglia, con la benedizione di quel Donald Rumsfeld che pochi anni dopo si sarebbe trasformato nel giustiziere del presidente iracheno.
Nel groviglio di odi reciproci, alimentati nella sponsorizzazione di gruppi terroristici come Hezbollah da parte iraniana e dalla intensa propaganda israeliana contro Teheran divenuto il nuovo nemico numero uno con l’avvento di Ahmadinejad, l’America si era smarrita. Dopo l’11 settembre, nonostante mai alcun sospetto di complicità o di sostegno agli odiati sunniti di Osama bin Laden fosse emerso, l’Iran fu definitivamente promosso al rango di «Stato Canaglia». Un rango che lo sviluppo di tecnologie nucleari elevò a minaccia non più soltanto regionale, ma globale. Per lunghi mesi, nel corso del 2012, un attacco militare con bombardamenti massicci a migliaia di obbiettivi era sembrato inevitabile, di fronte all’apparente insuccesso delle sanzioni.
Per giudicare dunque se la stretta di mano fra «Satana» e la «Canaglia» sia una storica inversione di marcia o un inganno che non fermerà le ambizioni nucleari dell’Iran, come insiste Israele davanti alla possibile perdita del monopolio nucleare (mai ufficialmente ammesso) nella regione, si deve partire da quell’“orlo del precipizio” al quale gli Usa, Israele e Iran erano arrivati, appena ieri. Certamente l’accordo di Ginevra non è la Rejkiavik dove Reagan e Gorbaciov seppellirono per sempre la corsa nucleare fra Usa e Urss e non è neppure il trattato di pace fra Sadat e Begin che per 30 anni ha impedito ogni conflitto aperto in Medio Oriente. Ma la marcia della follia si è fermata e gli Stati Uniti hanno dimostrato di poter accettare, e di poter essere accettati come interlocutori in diplomazia anche del più importante fra gli Stati che si proclamano integralmente islamici. Per ora, una nuova guerra attorno alle centrali iraniane è più lontana e in quel negoziato con gli Usa si può sperare che vi sia — ancora impronunciabile ma già visibile — il germe della lenta, futura e forse inevitabile laicizzazione dell’Iran.