Anna Zafesova, La Stampa 25/11/2013, 25 novembre 2013
DALL’UCRAINA AL KIRGHIZISTAN COSÌ LO “ZAR” RIDISEGNA L’URSS
Nove anni dopo la «rivoluzione arancione l’Ucraina torna in piazza, anzi, «l’euro-piazza», come è stata battezzata la protesta contro la decisione del governo di sospendere il negoziato con l’Europa. A Kiev 100 mila persone sono arrivate al Maidan Nezalezhnosti, la piazza dell’Indipendenza dove nel 2004 Yulia Timoshenko e Viktor Yushenko avevano strappato il potere a Viktor Yanukovich. Che è di nuovo il nemico principale: la ex premier ieri dal carcere ha chiesto alla piazza di «spazzare via» il presidente. Dopo scontri con la polizia, l’opposizione ha piantato una tendopoli, decorandola con striscioni come «No Putin, no cry» e «Sì all’Ue, no all’Urss».
Il dilemma, visto da Kiev come da Mosca è questo. Già nella sua campagna elettorale di due anni fa Vladimir Putin aveva annunciato la ricostituzione sulle ceneri dell’Urss di un’associazione politica ed economica che ne riprenda il ruolo. L’Unione Euroasiatica dovrebbe diventare «uno dei poli del mondo contemporaneo», in alternativa all’Europa per quanto il presidente russo dichiari di ispirarsi all’Ue. Una svolta notevole per un uomo che, ereditando il Cremlino nel 1999, disse che la Csi, la claudicante Comunità di Stati Indipendenti, era solo «un meccanismo di divorzio civile» e che chiunque non rimpiangesse l’Urss «non aveva cuore», ma chi voleva ricostruirla «non aveva cervello». Ma mentre gli altri ex fratelli post-sovietici cercavano una nuova identità di Stato nazionale, i russi non riuscivano a rassegnarsi alla perdita dell’impero. Per Putin la fine dell’Urss è diventata «la maggiore catastrofe geopolitica del ’900», e il Cremlino cerca di andare oltre gli ovvi tentativi di mantenere agibile il relitto di un impero dalle mille connessioni economiche, infrastrutturali, ma anche culturali e umane, per produrre una «civiltà polietnica intorno al nucleo culturale russo».
Dai balletti e ricatti con il dittatore bielorusso Lukashenko, alle oscillazioni geopolitiche dei satrapi dell’Asia Centrale, che soprattutto dopo l’11 settembre hanno in buona parte optato per l’ombrello militare americano, e hanno giocato su due tavoli con l’Europa sui gasdotti, il ritorno all’ovile non è stato così scontato. La nascita della Partnership di Shanghai ha rivelato l’ascesa di un giocatore finora sottovalutato dai russi, la Cina, tollerante quanto Mosca sulle carenze democratiche, ma molto più generosa. E, nonostante le promesse di uguaglianza, la Russia continuava a ricorrere a vecchi metodi sovietici, come nel 2008 quando contro la ribelle Georgia è stata lanciata una guerra-lampo. Ma lo strumento vero resta l’economia, e dal 2010 il Cremlino è impegnato nella edificazione dell’Unione Doganale, il nucleo di quella «Euroasiatica». La lista dei partecipanti per ora non è lunga: Russia, Bielorussia e Kazakistan, con Kirghizia e Tagikistan alla porta. Gli altri aspiranti membri sono imbarazzanti: l’Abkhazia e l’Ossezia del Sud, le due autonomie secessioniste della Georgia sotto protettorato militare russo, la Transdnistria, altra nazione non riconosciuta, e la Siria di Bashar Assad. A migliorare la situazione, qualche settimana fa, si è aggiunta l’Armenia, che sopravvive tra i nemici storici dell’Azerbaigian e della Turchia in buona parte grazie ai russi.
L’adesione dell’Ucraina avrebbe cambiato tutto. Il Paese più esteso dell’Europa, dove la civiltà russa affonda le sue origini storiche (come i serbi nel Kosovo), è tutt’ora considerata dal 67% dei russi «non estero», la sua svolta europea significherebbe non solo un danno economico o militare, ma il fallimento del sogno neo-imperiale. E così, nel modello «o con noi o contro di noi» proposto dalla Russia ogni arma, dall’embargo sui cioccolatini ucraini ai 20 miliardi di dollari che, secondo l’opposizione di Kiev, avrebbe dato a Yanukovich, è valida. Anche perché Kiev non ha ancora detto il suo «no» finale: la comunicazione formale dello stop al negoziato con l’Ue non è mai arrivata a Bruxelles e il leader ucraino vuole «ascoltare tutti gli argomenti», come a far capire che potrebbe ancora cambiare idea, soprattutto in caso di un «incentivo» europeo.