Roberto Giovannini, La Stampa 25/11/2013, 25 novembre 2013
ENI E INDUSTRIA MECCANICA, PER L’ITALIA UN MERCATO DA SETTE MILIARDI L’ANNO
Si ricomincia a fare affari. All’indomani dell’intesa sul nucleare iraniano, le tante imprese italiane tradizionalmente attive in Iran possono sperare nella ripresa dell’attività economica in un paese che una volta era fondamentale per l’economia italiana. In realtà, spiegano gli esperti, per questi primi sei mesi dei vantaggi concreti ci saranno soltanto per le imprese che per colpa (diretta o indiretta) delle sanzioni si sono visti congelati dei pagamenti di somme loro dovute. Ancora, è prevedibile che riprenderanno gli acquisti di petrolio iraniano. Per tutti gli altri ci sarà da attendere, per capire se il processo avviato con l’intesa di Ginevra si stabilizzerà e si svilupperà.
Prima delle sanzioni Onu del 2006 l’Italia era il terzo partner commerciale dell’Iran, e il primo fra i paesi dell’Unione Europea, con un giro di affari di 5,2 miliardi di euro. Giro d’affari che, nonostante le sanzioni, nel 2010 era cresciuto a quota 7 miliardi. Nel 2012, dopo le supersanzioni europee, gli scambi si erano invece ridotti a soli 3,2 miliardi. E nella prima metà del 2013 le esportazioni in Iran si sono ridotte a circa un miliardo. Ovviamente lo spazio degli italiani è stato conquistato da altri: cinesi, emiratini, turchi soprattutto, ma anche sudcoreani e giapponesi, che hanno cercato di aggirare le sanzioni con qualche successo.
«I primi ad avvantaggiarsi dell’intesa di Ginevra - spiega il professor Francesco Giumelli, che insegna Relazioni Internazionali all’Università di Groningen - saranno coloro che aspettano il pagamento di somme loro dovute: è il caso dell’Eni, che ha un credito di ben 2 miliardi di dollari nei confronti della National Iranian Oil Company. Analogo, ma per un ammontare diverso, è il caso della Valvitalia, un impresa che produce valvole utilizzabili sia nell’industria petrolifera che in quella nucleare, che aspetta 5,2 milioni dal 2010».
Stesso discorso si può fare per la Seli, un’impresa specializzata in trafori: sta lavorando alla metropolitana di Teheran e non riesce da anni a riscuotere. In più, ha dovuto rinunciare a commesse per 750 milioni. «Colpa» delle sanzioni aggiuntive attuate dall’Ue d’intesa con gli Usa, che non solo ha bloccato gli accordi interbancari, ma ha anche lasciato alle banche la discrezionalità di stabilire se una fornitura era legata ai programmi iraniani missilistici, nucleari o energetici, e dunque vietato dalle sanzioni. Quasi sempre le banche occidentali per evitare il rischio di finire nella lista nera hanno di fatto azzerato tutte le transazioni finanziarie, anche se i prodotti esportati erano decisamente «innocenti».
La speranza vera per chi vuole ricominciare a fare business nel paese degli ayatollah è che il processo avviato a Ginevra non solo resista per i prossimi sei mesi, ma si estenda. Non è detto che ciò avvenga. Secondo Giumelli, dunque, gran parte degli operatori economici italiani interessati a lavorare con l’Iran resteranno per un po’ alla finestra a fiutare il vento. «Difficile immaginare - spiega lo studioso - che una nostra impresa corra il rischio di partecipare a una gara d’appalto per realizzare una grande infrastruttura pubblica o per siglare un accordo commerciale significativo. Il pericolo che venga tutto vanificato, per adesso, è davvero molto elevato». Certamente invece l’Italia tornerà ad acquistare petrolio iraniano, che un tempo aveva un peso importante nella nostra bilancia energetica, e per il quale avevamo realizzato importanti investimenti. Ma difficilmente la mappa dell’approvvigionamento di petrolio del nostro Paese cambierà in modo radicale.