Francesca Paci, La Stampa 25/11/2013, 25 novembre 2013
DA ISRAELE ALL’ARABIA I GRANDI PERDENTI FANNO FRONTE COMUNE
L’altra faccia dell’accordo sul nucleare iraniano è quella torva dei Paesi che fino all’ultimo hanno remato contro e continuano a farlo. Israele, ovviamente. Ma anche l’Arabia Saudita, l’Egitto e, dietro la maschera triste del pagliaccio che ride, la Turchia, lesta a congratularsi con i negoziatori per guadagnare un credito presso il nuovo vincente fronte sciita dopo le ripetute batoste subite nel tentativo di porsi alla guida dell’islam sunnita.
In Israele l’umore tende al nero. Sebbene il presidente Peres si sia detto «cautamente ottimista» e le borse abbiano reagito positivamente, il premier Netanyahu ha definito «un errore storico» la fiducia accordata a Teheran. Secondo Yoel Guzansky dell’Institute for National Security Studies di Tel Aviv i nuovi sviluppi allontanano l’ipotesi di un attacco militare, che sarebbe visto ormai come «un sabotaggio dei 10 anni trascorsi tentando di spingere l’Iran a trattare». Ma Bibi, forte del malcontento regionale, insiste che «tutte le opzioni sono sul tavolo».
Riad non ama l’associazione con Israele e mantiene un profilo basso, ma lo schiaffo ricevuto da un’America sempre più prossima all’indipendenza energetica brucia. Il principe Alwaleed bin Talal afferma che «Obama è stato sopraffatto dall’Iran» e il consulente esteri dello Shura Council Abdullah al Askar ammette l’allarme nazionale per l’espansionismo di Teheran che «ha provato mese dopo mese di avere una brutta agenda regionale, rispetto alla quale nessuno dormirà più». La corona però, diversamente dai giorni della retromarcia di Washington sull’intervento in Siria, tace. Gli analisti ritengono che cercherà di avere una compensazione (più libertà di manovra in Siria?), essendogli impossibile condannare chiaramente un accordo applaudito dal governo sciita di Baghdad e dal presidente siriano Assad (contro cui Riad finanzia la rivolta).
«Il mondo arabo potrebbe preoccuparsi che, forti del successo con l’Iran, gli Usa facciano meno in Siria e in Egitto» twitta in serata il guru della Johns Hopkins University Vali Nasr.
Di certo il ritorno di Teheran non garba ai paesi sunniti del Golfo. Secondo l’ex ambasciatore americano a Riad Robert Jordan i sauditi potrebbero sentirsi addirittura meno minacciati dall’atomica iraniana (rispetto alla quale ripetono ancora di essere pronti ad acquistarne una dal Pakistan) che dalla neo superpotenza sciita, sponsor di Damasco, degli Hezbollah libanesi, dell’Iraq post Saddam, del Bahrain e delle irredente provincie orientali saudite.
Il terremoto mediorientale è appena cominciato. Eppure il premier turco, reduce dallo scontro a colpi di ambasciatori ritirati con l’Egitto, sta cercando riparo modificando in corsa la sua politica estera (che voleva avere zero problemi con i vicini e avendo invece sposato la causa perdente dei Fratelli Musulmani si ritrova nei guai). Così il ministro degli esteri Davutoglu è appena stato a Baghdad e si prepara a recarsi a Teheran.
L’Egitto vigila cupo. L’ex beniamino di Tahrir el Baradei si compiace dell’apertura all’Iran ma lui è ormai considerato un traditore in patria, dove il quotidiano governativo «al Ahram» sottolinea la vaghezza dell’accordo. Di certo la giunta militare al potere non apprezza, come s’intuisce da fonti vicine all’esercito («è la prova della debolezza di Obama, una vittoria netta di Teheran»). Dopo la deposizione dell’ex presidente Morsi il Cairo ha ricongelato i rapporti con la repubblica degli Ayatollah. Inoltre, alla ricerca di una posizione di forza, i generali si son messi a flirtare con Mosca per far capire a Washington che la vecchia alleanza non era garantita. Un bluff, concordano gli analisti, che potrebbe finire male se gli Stati Uniti, concentrati sull’Iran, li prendessero in parola.