Gianni Minà, Viva Verdi, marzo aprile 2007, 25 novembre 2013
QUANDO MASTROIANNI RICEVEVA I CLIENTI DELLO STUDIO DI GIOVANNA CAU
“La battaglia per una giusta definizione del diritto d’autore in ogni nuovo campo o supporto che la moderna tecnologia ci offriva, e che i grandi network tentavano di negare agli autori, venne dopo. Prima avevamo lottato contro le esagerazioni della censura, spesso imperante, all’epoca della Democrazia Cristiana. Eravamo andati anche in piazza per difendere principi elementari di libertà. Ma la battaglia di quegli anni che ricordo di più è quella in difesa del lavoro degli attori. Era il 1960, non c’era nessuna regolamentazione al riguardo. Non si sapeva nemmeno se l’attore era un lavoratore a tempo determinato o proprio non esistesse. Non c’era nulla che stabilisse cosa era quel lavoro. Capeggiata da Alberto Cortina, col quale ero associata nello studio legale, quella fu una vera lotta sindacale, innanzitutto contro la Rai.
“ Giovanna Cau, 84 anni portati con gagliardia, titolare forse del più antico studio romano di avvocati associati, accende con voluttà la sigaretta che ha preso dal pacchetto, con il mozzicone che gli è rimasto in mano, e insegue con allegria i ricordi mischiati alle tracce azzurrine del fumo.
“Bloccammo l’azienda per tre giorni, perché la Rai era ai primordi, e allora non aveva nemmeno un’adeguata cineteca, un archivio di titoli, un magazzino. Sembra impossibile immaginarlo adesso, un tempo in cui potrebbero scioperare tutti, ma la macchina delle immagini non si fermerebbe, perché sarebbe sufficiente un ingegnere che schiacci un bottone, per irradiare le repliche di programmi registrati. In realtà, però, riuscimmo a fermare la Rai, e ad ottenere dall’avvocato Cantelli (responsabile dell’ufficio legale dell’azienda), la firma di un accordo, perchè allora c’era, fra le categorie dei lavoratori dello spettacolo, una solidarietà che non c’è più.
Pensa che la controversia riguardava solo il diritto degli attori di vedere riconosciuta la qualifica di lavoratore a tempo determinato e di ottenere un pagamento per le repliche, ma nessuno si tirò indietro. I registi che in quel momento non c’entravano niente in quella diatriba, gli sceneggiatori, i grandi attori, come Marcello, Manfredi, Gassman, Volontè, Salerno, Sbragia, Garrani e Dario Fo, dettero vita ad un fondo di solidarietà per gli attori più giovani e meno conosciuti, per tutelarli dalle conseguenze che avrebbero potuto patire da parte della Rai, essendo sotto contratto per produzioni in corso. Oggi tutto questo è pura fantascienza.”
Il Marcello messo in testa al gruppo dei divi dell’epoca, è ovviamente Marcello Mastroianni, l’amico fraterno, “il cliente più tenero e più affezionato dello studio, che veniva in queste stanze anche solo per passare il tempo, e per avere la scusa di rimanerci di più, faceva perfino servizi umili, come andare a comprare i tramezzini o il whisky, o andare ad aprire la porta, perché le segretarie erano tutte occupate al telefono”. Penso alla faccia dei clienti quando, dopo aver suonato, si vedevano aprire la porta da Mastroianni, e capisco perché lo studio Cau (prima in associazione con Alberto Cortina e Andrea Alatri, e poi con Fabrizio Morandi e Roberto Minutillo), sia stato, per mezzo secolo, un luogo dello spirito, della cultura e dello spettacolo italiano.
Giovanna accarezza con lo sguardo una foto di Mastroianni che ha sulla scrivania, ma non ha voluto incorniciare perché così “mi sembra più disinvolta”. Una foto di scena tratta dal film Sostiene Pereira, la storia di un vecchio signore che in età già avanzata, un giorno, si ribella di fronte alle ingiustizie della dittatura portoghese, una situazione che non riusciva più a sopportare, e così si leva la giacca, il cappello, prende uno zainetto, e va a fare la rivoluzione. Per Giovanna Cau questa foto, con la bella espressione di sfida di un Mastroianni ancora affascinante, ha un significato profondo, “che non bisogna mai fermarsi, anche quando uno diventa vecchio. Perché entrare in questa età, se la sai vivere, è bellissimo, ti dà forza e ti suggerisce molti insegnamenti. Ti dico di più: non nascondendo che sono sempre stata politicizzata, in questi ultimi cinque anni, che io ho ritenuto bui, qualche volta mi sarebbe piaciuto, e l’ho fatto, non dico prendere lo zainetto, ma magari una borsetta, per andare ad affermare certi principi.”
La storia di una donna così sincera è stata inevitabilmente marcata da questo carattere.
Licenza liceale nel ‘41, in tempo di guerra, e quindi senza esame finale, il liceo era il Tasso di Roma. Lo stesso di Gassman, Luigi Squarzina o Luigi Filippo D’Amico, tre dei grandi teatranti e cinematografari che avrebbe rincontrato nel mondo dello spettacolo. “Ma loro erano in altre sezioni, perché allora non c’erano classi miste. Delle venticinque ragazze della mia sezione, solo io, inoltre, mi iscrissi all’università”, rileva sorridendo Giovanna, e aggiunge “Le ragazze, 70 anni fa, o stavano a casa o si sposavano. Io ebbi la fortuna che mio padre, al contrario di mamma, fosse uno spirito libero, funzionario del Bureau International du Travail, che, controllando da Ginevra il polso del mondo, si era reso conto dell’arretratezza sociale del nostro paese. Io, in verità, volevo fare architettura, che ancora adesso mi affascina molto, ma mio padre, chissà perché, tradì la sua consueta liberalità, ed essendo la prima di sette figli, decise che, come lui, mi dovevo laureare in legge, e mi iscrisse di imperio. Non credeva nelle possibilità di lavoro fornite dall’architettura. Le mie sorelle fecero medicina e i miei fratelli ingegneria, agraria e solo l’ultimo legge, ma non ha mai fatto l’avvocato. Per un po’ di mesi stetti in freddo con papà. Ma non potei fare altro che adeguarmi. E’ buffo, ora, dover constatare che la scelta fatta da lui per me, ha segnato la mia vita”.
Giovanna si laureò in quattro anni, con 110 e la lode, nel ‘44, pochi giorni dopo la liberazione di Roma, alla Sapienza, perché la Facoltà di Giurisprudenza era stata distrutta dal bombardamento di San Lorenzo.
“Papà, fedele al suo pragmatismo, mentre preparavo gli esami universitari, mi trovò un posto all’Istituto Nazionale Addestramento e Perfezionamento dei lavoratori dell’industria, ma c’era ben poco da addestrare. Nella nostra società, all’epoca, c’erano solo macerie, morali prima ancora che reali.”
E così il futuro avvocato del mondo del cinema, un’arte moderna che avrebbe riscattato le nostre sconfitte politiche, sentì che doveva impegnarsi nelle battaglie civili.
“Con Elena Gatti Caporaso, una cara amica, e con Laura Ingrao, la moglie di Pietro, demmo vita ad un Comitato per il voto alle donne, al quale si integrarono Rita Montagnana, la moglie di Togliatti, e inoltre Teresa Noce, Teresa Longo e Melina Scelba, sorella del Ministro dell’Interno democristiano, ma evidentemente più aperta di lui. C’era anche la moglie del liberale Lupinacci, una bella donna che spiccava nel gruppo. Riuscimmo a farci ricevere dal Presidente del Consiglio dei Ministri, Ivanoe Bonomi, che allora non stava a Palazzo Chigi ma al Viminale, perché, fino a quel momento, si parlava solo di concedere il voto amministrativo alle donne, non il voto politico. Per ottenere quell’appuntamento eravamo andate a disturbare anche il Comitato di Liberazione Nazionale, ed avevamo conosciuto Togliatti, Pertini, Parri, Nenni, che all’epoca si riunivano in un ufficetto a Via del Corso, proprio di fronte a dove poi si insediarono Craxi e il Partito Socialista. La visita al Presidente del Consiglio divenne un atto ufficiale. Quando arrivammo, io, come sempre distratta dalla mia passione per l’architettura, mi attardai in quei grandi corridoi affrescati, davanti alle porte c’erano uscieri alti e belli, con giacche con le code, simili ai frac. E così, essendo rimasta indietro, mi toccò sentire due di questi prestanti uscieri commentare al passaggio delle donne del Comitato, “Ammazza che racchie!”.
Credo che quella battuta mi abbia per sempre convinto che non potevo frequentare i luoghi della politica ufficiale. Non è un caso che tutte le compagne di quel gruppo siano in seguito diventate deputate o senatrici, meno io. Era destino che il mio futuro fosse quello dell’avvocato.”
Con la fine della guerra, al Ministero dell’Industria era arrivato come direttore generale un vecchio amico della famiglia Cau che, venendo incontro all’irrequietezza di Giovanna, aveva tramutato il suo impiego in una consulenza all’Assitalia. Fu lì che conobbe Alberto Cortina, un artista, un leader, un grandissimo avvocato già impegnato nelle battaglie per la tutela delle opere dell’ingegno. Giovanna ricorda con dolcezza “Avevo già messo in piedi, nel ‘47, ‘48, con Sergio Barenghi, insieme al quale mi ero laureata, il mio primo studio di avvocato, in una stanza tappezzata con carta da parati gialla, guarnita di pappagalli, che la mamma di Sergio aveva messo a nostra disposizione nella bella casa di Via Adige. Malgrado Sergio fosse scettico sul nostro potenziale di lavoro, eravamo riusciti a decollare e, dopo un certo tempo, ci eravamo allargati andando a vicolo Sciarra. Per farlo mi ero venduta tutto quello che avevo, perfino le monete d’oro che i parenti sardi, come consuetudine, mi avevano regalato per la laurea. Alla mattina andavo all’Assitalia, dove trattavano o archiviavano un sacco di cause che mi obbligavano a frequentare il Palazzo di Giustizia, e al pomeriggio andavo allo studio. Feci una bella gavetta, finchè, nel 1955, Alberto Cortina, che già si batteva per un ordinamento più trasparente e onesto del diritto d’autore nel cinema, mi propose di unirmi a lui e ad Andrea Alatri, nello studio che avevano in Via Flaminia. L’ambiente del cinema mi attraeva, anche se con Sergio Barenghi avevamo sempre avuto una clientela abbastanza raffinata. Il proletariato non si poteva permettere allora un avvocato, se non era come Gatti, uno dei nostri primi clienti, che ancora adesso fa tortellini. Spiegai a Sergio la mia scelta, e come era giusto gli lasciai lo studio senza chiedere nulla. Ai nuovi soci, pronti a dividere con me quello che avevano costruito, chiesi solo, con un capriccio tutto femminile, di cambiare sede, perché sotto di noi c’era un commerciante che vendeva formaggi e insaccati, e l’odore poteva disturbare il sofisticato mondo della nostra clientela potenziale. Erano gli anni d’oro del cinema italiano. Andrea Alatri aveva un meraviglioso carattere, e non fece una piega quando Alberto Cortina, da un giorno all’altro, gli disse che sarei stata la nuova associata del loro studio. Lo comunicarono anche a Mastroianni, che già era assistito da loro ‘Speriamo che sia bbona’, commentò. Il giorno che mi annunciarono sarebbe venuto a trovarci, andai a farmi la messa in piega, ma scoprii subito che non era affatto un latin lover. Intanto avevamo preso un bellissimo appartamento a Via Romagnosi. Divenne la sede delle grandi battaglie che il cinema italiano intraprese alla metà degli anni ‘50”. In realtà fu l’avamposto di tante istanze di cambiamento della società italiana: l’abolizione della censura, il diritto d’autore, la tutela degli attori e dei lavoratori dello spettacolo. “La realtà è che Berto Cortina, che se ne è andato due anni fa ed era del ‘23, come me, era un grande personaggio, un comunista convinto, un trascinatore di popolo, con un grande senso della vita. Ricordo quei giorni in cui oscurammo la Rai, per il diritto degli attori di avere una qualifica sindacale precisa. Il marciapiede del palazzo intorno al nostro ufficio era pieno di gente, perché c’erano tanti volti noti a sostenere quel nostro principio e questi spettatori già affascinati dalla appena nata televisione, bloccavano in molti momenti la strada. Su indicazione di Alberto, fra l’altro, noi a certe ore della giornata ordinavamo pizzette e supplì da distribuire alla gente che si era assiepata. E gli inquilini di quel caseggiato patrizio non si erano inquietati, anzi, si divertivano come matti, come la signora De Fonseca, una nobile bizzarra che ancora ricordo. Alla fine firmammo lo storico accordo fra la Rai e la Sai, Società Attori Italiani, ai quali veniva riconosciuta la qualifica di lavoratore a tempo determinato. Fu anche la volta del riconoscimento di una percentuale quando gli sceneggiati e le opere teatrali venivano replicate. Per arrivare a quel risultato dovemmo far fronte e smaltire anche 350 citazioni contro la Rai, di tutti quelli che in quei giorni aderirono a quel movimento di lotta. Allora non c’erano i computer, se sbagliavamo nella scrittura dovevamo ricominciare dall’inizio. Una vera maratona.”
Alberto Cortina fondò anche gli Artisti Associati, un’iniziativa teatrale tesa a rappresentare opere anche scomode, come poteva essere allora la vicenda resuscitata anni dopo anche dal cinema di Sacco e Vanzetti, i due anarchici innocenti giustiziati negli Stati Uniti all’inizio del secolo. Quando l’opera fu rappresentata al teatro Parioli da Volontè e Cucciolla, il Ministro Scelba (proprio il fratello di Melina, che era stata attivissima nella campagna per il voto alle donne), mandò la celere, con la scusa di prevenire tumulti.
Giovanna vive quei ricordi con ironia “Insomma, il nostro era uno studio battagliero e d’avanguardia. Fu il primo studio associato, tra l’altro con una donna, ed è abbastanza singolare che ci abbia dovuto pensare il Ministro Bersani del centro sinistra a liberalizzare la nostra professione, una decisione avversata da quei fascistoni dei penalisti. Mi sembra etico, per esempio, che un avvocato possa fare un accordo con il cliente: se non hai i soldi per fare la causa, io rischio come studio, e se vinci mi dai una percentuale. Sai quanti processi assurdi si eviterebbero, se gli avvocati non si imbarcassero colpevolmente in cause sballate? Solo la paura di rimetterci di tasca propria li può fermare.”
“Ma qual è la peculiarità di uno studio associato?” domando.
“Che ci sono degli avvocati che hanno i tuoi stessi diritti. Il destino, per esempio, si è portato via nel ‘72 Andrea Alatri, che noi chiamavamo Nano. Nello stesso periodo Berto, che nel frattempo aveva scoperto il suo talento di scultore, vincendo perfino il secondo premio, dietro Mazzacurati, per un’opera sulle Quattro giornate di Napoli, aveva a sua volta deciso di abbandonare il suo lavoro di avvocato, per costituire a Pietrasanta, sotto le Alpi Apuane, una grande cooperativa di lavoratori del marmo. Lasciò però la quota che gli spettava per il grande avviamento dato allo studio, ai quattro figli piccoli di Nano, di cui ci siamo occupati finchè non sono diventati grandi. Certo, nel ‘72, dopo questi accadimenti, per me non fu facile, ma con l’avvento di Fabrizio Morandi, e più avanti di Roberto Minutillo Turtur, ho potuto dimostrare la forza di un’associazione di professionisti quando scelgono di caratterizzare con l’etica il proprio lavoro. Ti confesso, però, che tante volte cerco di non pensare a quello che ci vuole per mandare avanti questa bottega composta di undici persone, perché se ci penso non riesco ad alzarmi dalla sedia. Attualmente, per esempio, è in crisi proprio quello che era il settore portante di questo studio, il cinema, carente di sceneggiatori e, più che mai, di veri produttori. Però di soddisfazioni morali ne abbiamo avute tante. Per esempio la battaglia con la Sacd, la Società Autori ed Editori francese. Oltralpe c’era una legge del ‘57 che prevedeva un minimo garantito e poi una percentuale per le vendite o per le repliche nei vari supporti, anche per gli attori e autori stranieri. Era una realtà importante, perchè in Italia invece dovevi cedere tutto al produttore, assolutamente tutto. Della nostra scoperta hanno potuto usufruire Scola, Fellini, Tonino Guerra, Monicelli ed altri si sono accodati. Finchè la Sacd ha messo un fermo a questa fruizione della legge, perché da parte italiana non c’era reciprocità. Adesso c’è. Poi abbiamo dovuto cominciare la battaglia per far passare la stessa regolamentazione in Italia. Non si finisce mai, e tu sai che le battaglie ideali soddisfano il cuore, ma non la borsa, perché richiedono molto tempo.”
La cultura libertaria italiana ha fatto e fa parte di questo studio. Non a caso, Fellini si piazzava nel sofà di fronte a Giovanna e diceva che si stava molto bene in questa pensioncina di seconda categoria, dove da una parte ci si occupava dei diritti delle persone e dall’altra si provava a dar corpo a sogni artistici.
E come Fellini, Luchino Visconti (antico cliente di Berto Cortina), Moravia, Calvino, Pratolini, Natalia Ginzburg, Monica Vitti, Francesco Rosi, Luigi Zampa, Scola, Pietrangeli, Elio Petri, e più recentemente Sorrentino e Crialese, senza contare Mastroianni (che in queste stanze viveva come a casa sua), tutti hanno lasciato tracce indelebili ma discrete. Da un disegno di Fellini per augurare un buon compleanno a Giovanna, unitamente ad “una sciarpa bianca di lana, lunga quanto lui“, ad una fotografia con Mastroianni da Chez Maxim a Parigi, un po’ stralunato, in un fine d’anno del ‘70, sentimentalmente mesto per un amore finito con Faye Dunaway. Marcello è con Giovanna, che ha a fianco il compagno, Emilio Benincasa Stagni, psichiatra all’ospedale Santa Maria della Pietà e sodale di Basaglia, il protagonista della legge 180, che umanizzò la vita dei cosiddetti malati di mente, e chiuse i manicomi. E c’è nell’espressione un po’ così di Mastroianni, tutto l’affetto per quell’amica che gli aveva assicurato perfino, nella sua quotidianità, la vigile tutela di una segretaria dello studio, Tiziana, che praticamente amministrava i suoi depositi bancari e gli lesinava i soldi quando lui, spendaccione, chiedeva cifre spropositate da qualche parte del mondo, per comprare case, cose, o per vivere storie sentimentali. “In verità, in quaranta anni di amicizia fraterna, non l’ho mai visto veramente innamorato di un’attrice. Qualche volta si faceva sedurre, ma solo qualche volta. Quasi sempre scappava e si rifugiava dalla sua prima moglie Flora. Era capace di affetti profondissimi, ma non mi ricordo che sia stato mai incantato veramente da una donna, nemmeno da Faye Dunaway. Ora non c’è più Marcello, e non c’è più nemmeno il mio compagno Emilio, che se ne è andato giovane, ad appena 60 anni. Sono stata con lui per trenta anni, ma non l’ho mai sposato, perché era già sposato con tre figli. I suoi nipoti adesso mi chiamano nonna.”
C’è una grande serenità in questa donna forte, che ha avuto una parte non banale nella storia del cinema italiano, quando esisteva, e che ancora recentemente, a 80 anni, è stata per quattro anni Consigliere comunale del gruppo Ds al Campidoglio, impegnata nelle politiche culturali e di attenzione ai disabili. “E’ stato un impegno più sociale che ideologico. Il nostro studio, per mezzo secolo, è stato sicuramente più progressista di quanto lo sia adesso la sinistra. Berto Cortina, per esempio, mi disse una volta, quando eravamo ancora negli anni ‘70, che era stato costretto a dimettersi dal Partito, ma malgrado la complicità che avevamo, non mi volle mai dire il perché. Quando recentemente Luciana Castellina, una delle fondatrici del Manifesto, mi disse di sapere la ragione di quell’atto, le chiesi di non dirmelo, perché sarebbe stato come tradire l’intimità che avevo con Berto. Se non me lo aveva rivelato, c’era una ragione. Sai, all’inizio i ricordi sono molto duri, sono spesso strazianti, poi però, l’ho detto anche in un recente, piccolo documentario che hanno girato su di me, il ricordo si addolcisce, e ti fa compagnia per tutta la vita.”