Cecilia Attanasio Ghezzi, Left 23/11/2013, 23 novembre 2013
ADDIO AI CAMPI
Dopo trent’anni di avanzamenti a tentoni «tastando le pietre per guadare il fiume» tanto per citare Deng Xiaoping la Repubblica Popolare Cinese ha finalmente voltato pagina. Ormai la linea è quella di seguire a grandi falcate «il sogno cinese», parola d’ordine della propaganda nell’era Xi Jinping. «Zhongguo meng, wo de meng» recitano i cartelloni a ogni fermata dell’autobus, a ogni stazione della metro e sulle recinzioni intorno a tutti i cantieri dell’immensa Cina: «II sogno cinese, il mio sogno».
Ed eccola la linea finalmente esplicitata dal leader. «Dobbiamo avere il coraggio e la convinzione necessari a rinnovarci» si legge nelle dichiarazioni del presidente Xi Jinping che accompagnano il documento conclusivo del terzo plenum, l’attesissimo appuntamento a porte chiuse del Partito comunista cinese. Il 15 novembre Xi ha indicato la direzione che prenderà la seconda economia mondiale nel prossimo decennio. Il suo obiettivo è ambizioso, vuole tenere assieme il rinnovamento economico, il miglioramento sociale e lo sviluppo patriottico della nazione. Il Partito comunista cinese si è dunque impegnato a riforme «decisive» di cui – promette – si vedranno gli effetti entro il 2020. Nel documento conclusivo si legge: «Il settore pubblico e quello privato sono componenti altrettanto importanti di un’economia socialista di mercato e sono le basi fondamentali dello sviluppo economico e sociale della nostra nazione». È la prima volta nella storia della Cina moderna che il settore privato viene collocato sullo stesso livello di quello statale. Alla radice di questa svolta, la necessità di dare nuovo slancio all’economia, che continua a crescere ma con ritmi più blandi del passato.
E allora ecco che anche in Cina appaiono le riforme. Alla loro base, il concetto di «sistema di proprietà misto (pubblico/privato)» e l’obiettivo di «rompere i monopoli», Il Partito stabilisce infatti che le grandi aziende di Stato che di fatto controllano interi settori come quello bancario, dell’energia, delle telecomunicazioni e dei trasporti dovranno restituire alle pubbliche il trenta per cento dei loro profitti, che saranno reinvestiti «per migliorare la vita delle persone». Sempre nell’ottica di un socialismo sempre più orientato al mercato «la Cina amplierà il settore bancario, consentendo al capitale privato qualificato di creare banche medio-piccole ». L’idea resta quella di evitare la cosiddetta «trappola del reddito medio», la situazione che si verifica quando un Paese in via di sviluppo raggiunge un reddito pro capite soddisfacente ma si trova davanti a un arresto della crescita. Per scansare il rischio, la Cina punta sullo sviluppo del mercato interno. Secondo la ricetta già teorizzata lo scorso anno dall’attuale premier Li Keqiang (mai citato nel documento): 250 milioni di persone dovranno trasferirsi dalle campagne alle città entro il 2025.
Urbanizzazione significa più consumatori e meno contadini, più terziario e meno produzione. «La doppia struttura economica urbano-rurale è l’ostacolo principale per l’integrazione dello sviluppo», recita la lunga nota del governo, è necessario «uno sforzo per consentire agli agricoltori di condividere i frutti della modemizzazione del Paese». E per crescere vale la pena anche di varare la riforma della terra, quella finora inaccettabile perché i campi dovevano restare invendibili, formalmente vincolati alla proprietà collettiva. Di fatto, almeno nell’ultimo decennio, i terreni sono stati gestiti dai funzionari di villaggio senza scrupoli che troppo spesso li hanno requisiti per cederli alle imprese immobiliari. Ricavando così profitto per la loro amministrazione e, illegalmente, anche per se stessi. Adesso Xi vuole concedere ai contadini di mettere sul mercato la terra dove lavorano e di accedere a crediti per coltivarla in modo più efficiente. Promette inoltre che i contadini verranno facilitati nello scambio del cosiddetto hukou, un documento di identità basato su un sistema di certificazione che registra e “congela” l’area di residenza di una persona. Di fatto, quando è nato (1958), serviva a impedire alla popolazione di spostarsi dal proprio luogo di nascita. Ma negli anni questo sistema ha creato cittadini di serie A e contadini di serie B. Gli oltre 260 milioni di migranti che lasciando le campagne hanno permesso il «miracolo cinese» in città non hanno diritto alla sanità ne alle scuole per i figli. Bene, il documento conclusivo del Plenum promette di rimediare anche a questo problema facilitando l’acquisizione di un hukou urbano in cambio della cessione dei diritti sulla terra.
Ma all’estero più che l’impegno a riforme strutturali due novità hanno avuto grande eco: l’annuncio dell’abolizione dei laojiao, i campi di rieducazione attraverso il lavoro, e l’ammorbidimento della politica del figlio unico. Ora potranno avere due discendenti tutte le coppie in cui almeno un genitore sia figlio unico. La speranza è quella di rimediare al veloce invecchiamento della popolazione. E ancora, la Cina si è impegnata a ridurre «passo dopo passo» i crimini puniti con la condanna capitale e a evitare che le confessioni vengano estorte tramite torture e abusi fisici.
Sono sicuramente riforme storiche che fanno ben sperare per i diritti civili. Ma attenzione, la cornice è sempre quella del dominio del Partito unico. Anzi, il nuovo presidente Xi Jinping ha dimostrato di aver il carisma necessario per superare il concetto di leadership collettiva che ha caratterizzato la dirigenza cinese dopo Deng Xiaoping e di volersi imporre su tutto e tutti. E la sua devozione al Partito è completa. Non a caso il suo primo anno al potere è stato caratterizzato da un’imponente opera di repressione del dissenso e dall’insistenza sull’assoluta necessità di fedeltà al Pcc. «La sicurezza dello Stato e la stabilità sociale, sono le precondizioni per le riforme e lo sviluppo», si legge sempre nel documento, che espone anche la necessità di un ulteriore controllo su internet, come se quello attuale non bastasse. La creazione di una Commissione per la sicurezza, su modello del Consiglio di sicurezza nazionale Usa, va letta come un ulteriore rafforzamento del potere centrale. Pechino ne ha bisogno per misurarsi a livello globale come la potenza che è. Ma per il momento la Cina non vuole mettere in discussione gli equilibri geopolitici mondiali. Preferisce confermare la forza della leadership e controllare il crescente dissenso interno.