Sofia Basso, Left 23/11/2013, 23 novembre 2013
ADOLESCENTI SENZA CURE
«Lo scriva che adesso non sento più le voci». Racconta tutto d’un fiato, Maria, 20 anni, maglietta col collo alto e maglione giallo canarino. A 14 anni ha smesso di uscire di casa: «Di giorno dormivo e di notte guardavo la tv, un canale di musica. Io sono una patita di musica. I miei genitori volevano che uscissi ma a me veniva l’ansia. Mi vergognavo perché non avevo amici». Tutto è iniziato al primo anno dell’istituto professionale di una cittadina di provincia, quando i compagni hanno cominciato a prenderla in giro: «Dicevano che ero lesbica anche se sapevano che mi piaceva un ragazzo. Forse perché stavo per conto mio e mi vestivo come capitava. Per loro ero quella strana...», rievoca contorcendosi le mani. Così ha cominciato a mettere in fila un’assenza dopo l’altra: «La paura del pregiudizio è diventata tale che a un certo punto ho smesso di andare a scuola. Sentivo le voci, mi facevo dei film in testa pensando delle cose che poi credevo fossero vere. Mi capitava anche di fare brutti sogni e poi mi convincevo che si sarebbero avverati. Una volta ho sognato che mio padre moriva in un incidente e allora volevo seguirlo ovunque». Per Maria la vita si era trasformata in un tormento: o sola con le sue voci, oppure coinvolta in liti furibonde. «A scuola litigavo con i miei compagni, a casa con i miei genitori. Non avevo nessuno con cui parlare, a parte un amico molto più grande che mi ha detto che mi dovevo fare aiutare. Ma io non volevo andare dallo psichiatra perché è per matti e io non ero pazza, dicevo». A 16 anni Maria capisce di aver bisogno di aiuto: «Stavo troppo male. Non mi alzavo dal letto perché non avevo motivazioni. Eppure io ho sempre avuto tanti interessi, anche se fatico a portare le cose a termine. Allora ho lasciato che i miei genitori mi portassero dagli esperti, che mi hanno fatta ricoverare subito. Lo dico sempre: le voci mi hanno salvata».
Maria è una delle poche adolescenti che ha trovato sostegno in una struttura specifica per la sua età. Perché in Italia i posti ad hoc per i 12-17enni sono pochissimi e stanno diminuendo sotto i colpi dei tagli alla spesa pubblica. Nel 2006 il ministero della Salute ha censito 381 posti letto nei reparti di Neuropsicologia infantile, di cui 79 in Lombardia, 58 in Sicilia, 47 in Toscana, 42 in Lazio, 27 in Puglia, 23 in Piemonte e in Campania, 21 nelle Marche, 20 in Liguria, 17 in Sardegna, 16 in Emilia Romagna. Sette regioni non ne hanno nessuno. Molti, però, esistono solo sulla carta, e tanti altri sono invece dedicati ai ricoveri neurologici o pediatrici. «I posti letto effettivi per gli adolescenti con patologia psichiatrica non superano i 60 in tutta Italia», denuncia Dario Calderoni, neuropsichiatra della Società italiana di neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza (Sinpia). «Aumentano i ricoveri ma diminuiscono i posti letto. Il risultato è il revolving door, con ragazzini che entrano ed escono perché non sono curati adeguatamente». Il 70 per cento degli adolescenti, infatti, finisce in reparti di altre specialità, come Psichiatria o Pediatria, assieme agli adulti o ai bambini. Il paragone con l’estero è impietoso: in Germania i posti letto per patologie psichiatriche dell’età evolutiva sono 4 ogni 10mila ragazzi; in Finlandia il tasso è di 7,4, negli Usa addirittura 100. In Italia l’offerta di posti letto specialistici per la fascia d’età 12-17 è dello 0,23 per 10mila. Un’inezia nel mare di un disagio crescente.
Se negli Stati Uniti la prima causa di ricovero per l’età evolutiva è ormai psichiatrica (disturbi dell’umore), i dati sono preoccupanti anche in Italia: il 20 per cento degli adolescenti presenta disturbi psicopatologici e il 10 per cento richiede una presa in carico dei servizi di salute mentale. Per le femmine di 12-17 anni la diagnosi psichiatrica prevalente è quella dei disturbi alimentari (19,3 per cento) seguita dai disturbi di ansia (14,5). Nei coetanei maschi, invece, in pole position c’è l’abuso di sostanze e disturbi correlati (16,9 per cento) seguito da disturbi psicotici (16,6). A due cifre anche la percentuale di disturbi di personalità.
Già nei primi anni Duemila il progetto Prisma, una delle poche indagini italiane sui disturbi mentali nella preadolescenza, indicava il superamento della storica distinzione tra i sessi che vedeva i maschi più aggressivi e problematici rispetto alle femmine, mentre confermava la ripercussione dei problemi di coppia sull’assetto psicologico dei figli. «Appartenere a una famiglia disgregata o di modesto tenore socio-economico ed essere di sesso femminile è la condizione di maggior rischio per sviluppare problemi psicologici», riassumeva lo studio. L’indagine notava anche che «più del 7 per cento della popolazione preadolescenziale soffre di disturbi d’ansia e il 12 del disturbo post traumatico da stress, dato inquietante in una popolazione che non dovrebbe avere condizioni che giustificano una tale frequenza. Il 9,1 soffre di agorafobia e il 9,5 di fobie sociali». Tra le 7 città prese in considerazione dal progetto, quella con la più alta percentuale di ragazzi con patologie era Roma.
La difficoltà di vivere nella Capitale con una situazione difficile a casa ce la racconta Valeria, 22 anni, minuta nei suoi capelli lunghi biondi: «Sono arrivata a Roma a 15 anni per ricongiungermi con mia mamma che si era risposata. Nel primo anno non uscivo mai perché non mi ero ancora fatta nuovi amici. Vivere insieme a mia madre e al suo compagno mi era impossibile. Il loro conflitto e le loro discussioni continue mi facevano stare male. Ero arrivata al terrore psicologico». All’inizio Valeria ha cercato aiuto online ma il suo malessere non trovava risposte su internet. Poi un compagno di scuola le ha segnalato un centro per minori e, dopo una lunga attesa, è riuscita ad allontanarsi da una famiglia che le lasciava addosso tanta angoscia: «Nelle prime settimane che vivevo fuori casa mi sembrava di essere in vacanza. Poi sono sprofondata in una solitudine interiore: senza mia madre mi sentivo un po’ spaesata. Ma ora quando la vedo ci sto bene. Infatti lei mi chiede sempre di tornare a casa». La serenità conquistata con la psicoterapia, le ha permesso di finire il liceo: «A casa non riuscivo a concentrarmi nello studio». Adesso Valeria va all’università. Anche Paolo -17 anni, berretto con la visiera all’indietro e grandi cuffie al collo grazie al sostegno psichiatrico è riuscito a non farsi bocciare. Non ha superato del tutto le crisi d’ansia che ancora lo spingono a uscire dalla classe, ma quest’anno ha iniziato la quarta liceo.
«In Italia c’è un problema che riguarda l’emergenza psichiatrica nell’età evolutiva, un po’ terra di nessuno», riassume Andrea Gaddini, psichiatra. «In Lazio non sono mai state realizzate unità di questo tipo, forse il progetto già approvato di crearle sarà realizzato adesso. I ragazzi di 15-18 anni in alcune manifestazioni sono più simili agli adulti, compresi i disturbi psichiatrici». E i casi estremi come le baby squillo dei Parioli? «Nel caso fosse stato presente un disturbo psichiatrico acuto, non sarebbe una buona idea mandare queste ragazze in un reparto pediatrico», precisa Gaddini, che equipara la loro condizione anche se provengono da contesti socio-economici diversi: «Le due ragazze sono uniformate dalla loro incapacità di rappresentarsi all’interno di un percorso evolutivo e rivendicano grandi livelli di autonomia. Se una ragazzina di 14 anni sì raffigura come un’adulta, e non c’è un genitore capace di rappresentarla nella giusta dimensione, c’è qualcosa che non va. Il problema riguarda i livelli di consapevolezza dei genitori di questa generazione che a volte sono molto scarsi».
Secondo Gaddini anche il sistema commerciale spinge nella direzione di adolescenti molto indipendenti: «Il marketing ne ha fatto un target preciso, ad esempio con bevande ad hoc. Non a caso è aumentato il consumo degli alcolici, che vengono usati per mascherare un disagio. L’idea di assumere una sostanza di qualunque tipo per scopi che non hanno a che fare col piacere è diventata più consueta anche nella nostra cultura. Un tempo non c’era l’obiettivo di ubriacarsi. Anzi, il gioco era stare sul filo. Lo sballo degli adolescenti di oggi è molto simile a quello che si osserva nei Paesi del Nord Europa».
In Italia la prima causa di morte degli adolescenti è l’incidente stradale, seguito dal suicidio. «Certi abusi di sostanze o di alcolici sono quasi degli equivalenti suicidali, soprattutto quando la propria salvaguardia è messa sistematicamente a repentaglio», aggiunge Gaddini, che denuncia anche una profonda omertà verso i tentativi di suicidio. «Spesso nei Pronto soccorso queste palesi manifestazioni di disagio non vengono registrate come tali ne trattate in modo appropriato. Con l’assenso dei genitori». I dati sui suicidi, comunque, non sono omogenei in tutto il Paese: «C’è un gradiente decrescente che va da Nord a Sud, dove la famiglia è più spesso presente. Almeno i nostri “bamboccioni”, come sono stati chiamati, sul piano affettivo hanno forse ricevuto un supporto maggiore».
Il 24 gennaio 2013 le Regioni, le Province e i Comuni hanno approvato in Conferenza unificata il Piano nazionale per la salute mentale. Un documento che prende atto, nero su bianco, di una situazione «disomogenea nelle diverse regioni» e con «evidenti carenze». E ammette: «Particolannente critiche appaiono le risposte ai disturbi psichiatrici in adolescenza». Da qui l’invito a migliorare la risposta in quel settore. Anche perché «molte patologie hanno il loro esordio in età evolutiva e, se non adeguatamente e tempestivamente trattate, possono determinare conseguenze assai significative in età adulta». Nulla, però, garantisce che le Regioni cambieranno davvero marcia.