Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  novembre 23 Sabato calendario

AUGUSTO LA VERA STORIA


È DAVVERO UN PECCATO CHE SIANO ANDATE PERDUTE LE MEMORIE DI SILLA, IL GRANDE E SPIETATO CONDOTTIERO ARISTOCRATICO CHE SI OPPOSE con successo all’altrettanto grande e spietato condottiero «popolare» Caio Mario che respinse i Cimbri e Teutoni e fondò l’esercito professionale romano. Ma anche quelle di Lutazio Càtulo, potente generale e fine intellettuale intorno al quale si formò un gruppo di scrittori definibili come preneoterici, cioè anticipatori del gruppo dei neòteroi (poetae novi) di cui Catullo fu il più originale e brillante esponente.
Per fortuna ci restano, oltre ai Commentarii di Cesare (De bello gallico, civile, e l’intero corpus caesarianum), anche la splendida e lunghissima iscrizione Res gestae divi Angusti, un elegante anche se discutibile e talvolta bugiardo elenco delle imprese di Ottaviano Augusto imperatore, assolutamente spregiudicate nel dar conto del suo operato: un testo piegato alle esigenze politiche contrastanti, a volte sfacciatamente, con la realtà dei fatti; ma tutto ciò fatto con mirabile sinteticità e assoluta eleganza «attica» e «analogista», di evidente derivazione cesariana. La storia narrata in tale iscrizione, comincia con la descrizione di quello che potremmo definire un vero e proprio «colpo di stato».
Di essa fatta incidere nel bronzo davanti all’Ara pacis augustae e in alcune importanti città dell’impero, Apollonia, Ankara e Antiochia, leggiamo l’inizio.
Annos undeviginti natus exercitum privato consilio et privata impensa comparavi, per quem rem publicam a dominatione factionis oppressam in libertatem vindicavi: «All’età di diciannove anni, con decisione personale e spesa personale, arruolai un esercito, per cui mezzo restituii a libertà la repubblica oppressa dalla dominazione d’una fazione».
Questa fazione, secondo ciò che pensava Ottaviano, era quasi certamente il gruppo guidato da Marco Antonio, capo del partito dei populares. Ma Antonio era un fervente cesariano, e anche magister equitum «capo della cavalleria», combattente indomabile, anche se uomo vizioso, frequentatore di bettole, prostitute e giocolieri di strada. E allora? Ma contro Antonio, il puer (così Cicerone designava quell’intraprendente e quasi ancora adolescente erede di Cesare), aspirava illegalmente alla «successione», e al supremo potere. Ma nella costituzione dello Stato romano non si poteva «succedere» per diritto di adozione. Ottaviano lo sapeva e quindi compì coscientemente, appunto, un colpo di stato. Riuscì arbitrariamente a farsi eleggere (a venti anni!) senatore proprio dall’ordine dei senatori; ottenne inoltre un comando militare (imperium) accanto ai consoli Irzio e Pausa; ottenne anche la propretura, poi partì con il suo esercito «personale» accanto a quello regolare guidato dai due consoli. Egli va così, pur essendo pronipote di Cesare e suo figlio adottivo, alla guerra di Modena dove Antonio combatte per subentrare a Decimo Bruto (uno degli uccisori di Cesare!) nel governatorato della Gallia Cisalpina. Dunque Ottaviano, con la sua spregiudicatezza, si schiera contro il cesariano Antonio, per difendere Decimo Bruto, che addirittura aveva partecipato al massacro di Cesare! Antonio è sconfitto. Ma i due consoli, Irzio e Pausa, muoiono in battaglia. E Ottaviano, tornato a Roma si fa eleggere console insieme ad un arrendevole collega, Q. Pedio; per ottenere ciò aveva mandato un reparto di suoi agguerriti soldati a imporre al Senato la propria elezione.
C’è poi una «correzione» nel piano di Ottaviano. Si rappacifica con Antonio, e con Lepido, forma così il secondo triunvirato. I nuovi triunviri dichiarano feroci proscrizioni, durante le quali viene ucciso Cicerone, uomo ormai di centro destra, per aver egli ingiuriato (nella II filippica) Fulvia, moglie di Antonio.
Intanto gli uccisori di Cesare, minacciati dalla folla e dai veterani di Cesare, fuggono in Grecia dove arruolano anche loro un esercito, guidato da Bruto e Cassio. Ottaviano e Antonio partono a inseguirli, dopo averli accusati di star preparando un attacco al governo di Roma. E a Roma, contro di essi, certamente dietro pressioni di Ottaviano, viene dichiarato lo stato di emergenza con la formula del cosiddetto senatus consultus ultimus: Videant consules ne res publica quid detrimentum capiat («Si adoperino i consoli affinché la Repubblica non subisca alcun danno»).
Vi furono violenti scontri presso Filippi: Ottaviano contro Bruto, Antonio contro Cassie. Ottaviano perde e si mette in salvo fuggendo. Antonio invece vince contro Cassio, poi vince anche contro Bruto. Questa è la storia; ma Ottaviano, al termine del secondo capitolo delle sue Res gestae scrive: (Bruto e Cassio) bellum inferentes rei pubblicae vici bis acie. «Poiché Bruto e Cassio intendevano far guerra allo Stato, li vinsi due volte in campo aperto». Una menzogna. Egli non era un buon combattente, e per di più era di fragile costituzione fisica. E come si è detto, era fuggito davanti a Bruto; era Antonio che aveva battuto prima Bruto, poi Cassio «in campo aperto».
Ottaviano ha così dimostrato quello che è: un mediocre combattente, anche se un insuperabile uomo politico, e un abile mistificatore.
La situazione si ripeterà ad Azio (nel combattimento terra – mare contro Antonio e Cleopatra). La flotta egiziana sarà messa in fuga da Agrippa, il fedele amico di Ottaviano, che durante la battaglia giace ammalato nella sua cuccetta su un’agile nave liburnica.
Certo, le Res gestae non potevano dilungarsi in dettagli, forse ritenuti secondari, ma nello stesso tempo non avrebbero dovuto essere menzognere, come in realtà sono almeno in parte.
Riprendendo a leggere questa bellissima ma inattendibile iscrizione, troviamo una diversa e falsa versione dello svolgimento dei fatti prima di Filippi: Quì parentem meum trucudaverunt, eos in exilium expuli iudiciis legitimis ultus eorum facinus: «quelli che trucidarono il mio padre adottivo, li cacciai in esilio vendicandomi del loro crimine».
In realtà Bruto e Cassie erano fuggiti e non erano mai stati mandati in esilio.
La battaglia di Filippi era stata in realtà una serie di scontri che si erano conclusi nel modo contraddittorio che si è detto.
Subito dopo il suicidio di Antonio e Cleopatra, sconfitti ad Azio dalla flotta leggera guidata da Agrippa, fu la straordinaria capacità politica di Ottaviano, insieme alla sua abilità manovriera, a determinare la progressiva concentrazione delle magistrature tradizionali, dal consolato alla pretura, alla tribunicia potestas, al proconsolato infinitus magnus per il governo di tutte le provinciae, il pontificatus magnus, tutte sulla propria persona, insieme al comando di circa cinquanta legioni (da lui stesso ridotte poi a venticinque). In tal modo egli potè essere considerato e proclamato (nel 37 a.C.) Augusto, come creatore con l’aiuto dei figli di sua moglie Livia, Tiberio e Druso, ottimi generali in terra germanica del sempre più vasto impero romano, al vertice del quale la sua indiscutibile abilità, alla testa d’una vasta ed esperta burocrazia, egli costituì la sua ormai indiscussa auctoritas di princeps, puritano nell’indirizzo della sua riforma morale delle classi e dello Stato, pur continuando, in privato, ad esercitare il proprio commaturato libertinaggio, trasmesso purtroppo alla figlia Giulia maggiore, e alla nipote Giulia minore. Ma infine anche lui, l’intoccabile Augusto, tra profondi dispiaceri cui dovette aggiungere l’esilio delle due Giulie per la loro scostumatezza, la morte precocissima dei due nipoti Gaio e Giulio, seguita da quella dell’amatissimo e prezioso amico Agrippa, oltre che del secondo figliastro Druso, ma forse soprattutto, la terribile sconfitta di Teutoburgo che gli distrusse tre legioni rendendolo quasi folle, incontrò la morte settantasettenne, nell’agosto del 14 d.C. quasi recitando questa sua penultima battuta: Se ho ben recitato il’mimo della vita, applaudite. E l’ultima battuta rivolta alla moglie Livia, collaboratrice e forse complice in molte sue discutibili iniziative, e persino di qualche segreto crimine all’interno del Palazzo: «Livia ricorda la nostra vita in comune e il nostro affetto».