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 2013  novembre 23 Sabato calendario

ISTANBUL SECONDO OZPETEK


Ferzan Ozpetek racconta la sua Istanbul. Anzi, le sue Istanbul. Al plurale. Quella di ieri, della sua famiglia e dei ricordi. E quella di oggi, capitale di una Turchia al centro della scena economica, politica e sociale. Lo fa lasciando per la prima volta la cinepresa e scrivendo Rosso Istanbul (Mondadori), piccolo libro perfettamente in bilico tra passato remoto e presente accelerato, con storie, destini e autobiografia che si sfiorano e intrecciano come nei suoi film. Rosso è il colore della sua città? «Di certo è quello dello smalto scarlatto che mia madre, oggi quasi novantenne mette ancora sulle sue dita. È il rosso dei carrettini dei venditori ambulanti di simit, le ciambelle calde ricoperte di sesamo la prima cosa che compro ogni volta che ritorno a Istanbul e il rosso fiammante dei vecchi tram della memoria: oggi ne è rimasto solo uno, dove salgono i turisti lungo Istiklal Caddesi. È il rosso dei melograni spremuti per strada, ma anche quello dell’abito semplice, rivoluzionario, di una ragazza da sola contro gli idranti della polizia, durante le ultime proteste a Gezi Park: un’immagine che ho ancora negli occhi e mi riempie di orgoglio, l’orgoglio di vedere ragazzi e ragazze del mio paese ribellarsi, alzare la testa, e in modo creativo. Quello che vorrei vedere, di più, più forte, più spesso, anche in questa “nostra” Italia».
Nelle parole, nelle pagine di Ozpetek, la sua città amata si svela. Kalamis, il quartiere di vecchie ville accanto al Mar di Marmara, dov’è cresciuto. Haydarpasa, la stazione ferroviaria capolavoro dei primi del 900, sul mare, dove, da bambino, accompagna ignaro la madre a uno struggente, inspiegabile addio d’amore. C’è un hammam di quartiere. Le vecchie pasticcerie. E ovviamente la Istanbul da cartolina: il Ponte di Galata, i tramonti che mischiano rosso e blu, le notti sul Bosforo. E il profumo dei tigli in primavera: sottile, magico, che fa girare la testa, oggi come allora.
Ozpetek oggi vive a Roma, ma la sua città non l’ha mai davvero lasciata. «Ci torno almeno una volta ogni due mesi, soprattutto per trovare mia madre: anche a lei, ai suoi segreti, alla sua malinconia, è dedicato il libro. Della Istanbul di oggi mi piace la modernità, il dinamismo, i 16 milioni di persone che pensano, progettano, fanno arte ma anche politica. Non mi piace invece la frenesia di distruzione, con cui si demolisce tutto per costruire qualcosa di non necessariamente più bello o più utile, ma semplicemente nuovo. Poco prima di Gezi Park (che era, appunto, il tentativo di radere al suolo un parco in centro, ndr) c’è stata la demolizione di Emek Sinemasi, che ho seguito da vicino, con tristezza». Emek Sinemasi è un vecchio, storico cinema degli anni 30, costruito ai tempi di Atatürk, abbattuto per fare spazio a un ennesimo shopping center. «La scorsa primavera sono stato coinvolto anch’io, coi miei amici registi, attori, sceneggiatori, tutti in piazza a resistere, costruire barricate contro i bulldozer e la polizia. Anch’io ho protestato, twittato, e alla fine, quando la battaglia è stata persa e il cinema distrutto, ho deciso di salvarlo come potevo: l’ho messo nel mio libro. È meraviglioso, il potere delle parole, dell’arte: ci permette di salvare quello che amiamo dall’oblìo».
Perché tanta passione? «È stata una delle prime sale dove sono andato da bambino: lì ho scoperto la magia di quello che sarebbe poi diventato il mio mondo. All’epoca, negli anni 50, in Turchia i bambini sotto i sette anni non potevano entrare nei cinematografi. E io invidiavo i miei fratelli, che avevano il permesso di andarci. Insistevo con mia nonna, che ogni settimana chiedeva: “Cosa fanno al Citè? Cosa fanno da Emek? Se fanno un film con la leonessa, andiamo”. La leonessa era la belva ruggente della Metro Goldwyn Mayer. Finché la nonna, contravvenendo alle regole, un giorno mi portò. E per la prima volta sono entrato nell’incantesimo che è diventata poi la mia vita. A vedere Cleopatra, il mitico Cleopatra con Richard Burton e Liz Taylor. La ricordo tutta vestita d’oro quando arriva a Roma, con il corteo trionfale, i diademi egiziani in testa, da regina. E c’era già Roma nel mio destino».
«È come se avessi due patrie», dice. «Non a caso uno dei tanti nomi della mia città, oltre a Costantinopoli, Bisanzio, Dersaadet o Bab-i Ali (porta della felicità o porta sublime), è proprio “la seconda Roma”. Che dire? Era destino». Destino, forse, che Ferzan arrivasse in Italia a diciassette anni per studiare cinema, anche se il padre avrebbe preferito l’America. E destino che vivesse sempre in bilico tra la prima e la seconda Roma, scenario e nutrimento continuo anche dei suoi film. Nel libro, destino, coincidenze, amori finiti e irrisolti, rimpianti e fantasmi di certo non mancano.
«E non solo nel libro. Perché questo sono io, ed è la stoffa di cui sono fatti anche i miei film. Anche il prossimo, che uscirà a febbraio 2014: si intitola Allacciate le cinture ed è la storia di un amore, di un matrimonio, di una donna e di un uomo, e di tredici anni di vita. Una storia d’amore: perché è l’amore la cosa più importante della vita. Ci credo, ed è questo che ho voluto fosse scritto sulla copertina del libro. Tutti gli amori, anche quelli impossibili, incompiuti, che potevano essere e non sono stati. Nella vita ho imparato che è meglio una scia bruciante o una cicatrice, è meglio l’incendio di un cuore d’inverno. Ho imparato, e dò ragione a mia madre, che è possibile amare due persone contemporaneamente. Ho imparato che non sai mai chi amerai. E lo voglio raccontare».