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 2013  novembre 24 Domenica calendario

GLENO, I 90 DEL VAJONT DIMENTICATO

Sono due dei più grandi disastri dell’Italia del ’900, disastri dell’ingegneria al servizio di un cinismo folle, e restano legati nel tempo dai loro anniversari: la tragedia del Vajont, di cui quest’anno corre il 50°, e quella della diga del Gleno, avvenuta 90 anni fa. Ma se la prima è solidamente parte della memoria nazionale, la seconda è stata quasi dimenticata: colpa del maggior tempo trascorso, colpa del periodo in cui avvenne (non c’erano ancora né radio né televisioni) colpa anche di interessi trasversali che furono evidenziati dall’esito del processo ai responsabili e che misero in sordina lo scandalo.
Il teatro della sciagura fu la piccola e bella Val di Scalve, in provincia di Bergamo, un ramo laterale della Val Camonica, nel bresciano. Nella sua parte alta, a 1.500 metri di altezza, nell’estate del 1923 fu completato un enorme sbarramento ad archi di 260 metri, fatto di 25 volte, su un’altura chiamata piana del Gleno, dal nome del monte prospiciente, che raccoglieva la gettata dei torrenti Povo, Bellavalle e dei loro micro-affluenti, creando un lago artificiale di 400.000 metri quadrati. La diga era stata pensata nel 1907, ma la costruzione era iniziata nel 1916, quando il progetto era stato preso in mano da una ditta privata, la Galeazzo Viganò di Ponte Albiate, in Brianza, che voleva una fonte diretta di energia elettrica per i suoi cotonifici in espansione. A presiedere i lavori era stato il capo dell’azienda, il primus inter pares fra i fratelli Viganò, Virgilio, che si era trasferito a Vilminore, piccolo paese poco distante dalla diga, e lì era rimasto fino al completamento di quello che veniva giudicato uno degli impianti idroelettrici più moderni e interessanti in Italia.
Gli ultimi giorni del novembre ’23 furono caratterizzati da piogge intense, che innalzarono il livello del bacino. La proverbiale goccia che fece traboccare i vaso. Alle 7.15 di sabato 1° dicembre 1923 la diga cedette, crollarono otto contrafforti, e in non più di un quarto d’ora si riversarono sulla vallata qualcosa come 6 milioni di metri cubi d’acqua. Aiuta a capire quegli istanti apocalittici, magari seguendo i toponimi su Google maps, il racconto dello storico locale Giacomo Sebastiano Pedersoli, a cui si deve la più completa ricostruzione della vicenda, Il disastro del Gleno, pubblicata dalle edizioni veronesi Cierre. La massa d’acqua, dopo aver semidistrutto il primo borgo, Bueggio, «precipitò sempre più violenta e densa di materiali dirompenti (terra, rocce, legnami) e si franse contro il pendio sottostante Azzone, sulla sponda sinistra del Dezzo che scende da Schilpario, rigettandone indietro le acque. L’urto fu tale che la fiumana rimbalzò sulla sponda destra e travolse la strada provinciale, la centrale del Consorzio Idroelettrico del Dezzo, la fabbrica di ghisa, l’antico ponte e rase al suolo la località Dezzo di Colere. Le vie di comunicazione con la Valle di Scalve furono interrotte.
Tutto tacque. La valanga fu preceduta da un’improvvisa raffica di vento, sotto la quale gli alberi si piegarono e molti tetti si scoperchiarono. Poi sul paese di Dezzo balenarono alte fiamme. L’acqua, giungendo a contatto della centrale elettrica, aveva determinato un corto circuito; inoltre, invadendo i forni della fabbrica di ghisa, ne aveva causato lo scoppio. La luce sparì dalle case». Ma questo fu solo l’inizio.
L’orografia del posto, dalle profonde forre del Dezzo fino ad Angolo Terme e allo sbocco in Val Camonica, fu un susseguirsi di salti violenti e di strettoie che portarono la corsa di quel bolo impazzito della montagna a fermarsi solo nel lago d’Iseo, a oltre trenta chilometri di distanza dalla diga. Il lago si alzò di livello e nella cittadina di Lovere furono recuperate 48 salme.
In una valle che contava allora 6.000 abitanti le vittime accertate furono 356, ma il numero reale fu probabilmente di quasi 500. La tragedia colpì una popolazione che era appena uscita dall’incubo della prima guerra mondiale, con numerosi caduti specialmente sul fronte del Tonale e dell’Adamello. Si trattava in gran parte di contadini, ma non solo. Nella Val di Scalve stava nascendo un tessuto industriale non indifferente per quegli anni: gli impianti idroelettrici, quelli per la lavorazione del legname, l’attività estrattiva a Schilpario, l’altoforno a Dezzo. Lo sviluppo economico fu bloccato e ci vollero anni, se non decenni per sanare anche quelle ferite.
Il 30 dicembre 1923 il procuratore del Re incriminò per omicidio colposo plurimo la ditta dei fratelli Viganò e il progettista della diga, l’ingegnere palermitano Gio Battista Santangelo. Nel corso delle indagini emerse una realtà che era rimasta ignota a tutti, ma non ai lavoratori della diga. Dal settembre 1916 in poi la scarsa disponibilità di mano d’opera e di materiali a causa della guerra aveva provocato un fortissimo rincaro dei costi. La conseguenza fu che il progetto venne cambiato più volte in corso d’opera, al risparmio, senza le opportune verifiche di sostenibilità, i materiali da costruzione furono ’diluiti’ per lo stesso motivo e i controlli da parte del Genio civile furono del tutto inadeguati. Un testimone chiave fu il guardiano della diga, Francesco Morzenti, che subito dopo il disastro rilasciò dichiarazioni vaghe, ma nel 1924 dettò al suo avvocato una testimonianza dettagliata di tutti gli scempi commessi negli anni in quel mega cantiere, sotto la supervisione diretta di Virgilio Viganò: qualità scarsa del cemento, sabbia e ghiaia non lavate o troppo grosse, calce nei basamenti che si spappolava come farina, ferro tondo per le armature in parte arrugginito o residuo di guerra, il calcestruzzo dei piloni mai compresso, fughe d’acqua che da subito resero la diga un colabrodo. «Io pensai che quella gente non si curava di nulla» disse lapidario il Morzenti. Il 18 maggio 1927 ebbe inizio il processo davanti al Tribunale di Bergamo, che terminò il 4 luglio. Viganò e Santangelo furono condannati a tre anni e quattro mesi di reclusione, oltre a 7.500 lire di multa, ai danni verso le parti lese e quelle verso le parti civili. A entrambi vennero poi condonati due anni della pena e l’intera somma pecuniaria. Gli altri imputati furono tutti assolti. «Con un processo affrettato – commenta Pedersoli – si mise tutto a tacere, secondo l’uso del regime fascista, che non poteva tollerare che il lavoro italiano venisse dileggiato. Anzi, si insinuò che la rotta del Gleno fosse opera di ’sovversivi’ e gli imputati, responsabili per incuria, negligenza, cupidigia, vennero assolti con una decisione di carattere politico».