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 2013  novembre 23 Sabato calendario

FU STALIN IL VERO MACELLAIO DI LENINGRADO


Sono rimasti secretati negli archivi per 50 anni, perché considerati irrispettosi della retorica ufficiale del regime sovietico. I diari della poetessa russa Ol’ga Berggol’c tornano adesso alla luce, tradotti per la prima volta in italiano, grazie all’edizione della Marsilio (Diario proibito, pp. 160, euro 14), dopo essere stati pubblicati parzialmente in Russia all’inizio degli anni Novanta.
Le pagine della scrittrice, presentate oggi al festival Bookcity di Milano, fanno finalmente luce sull’assedio di Leningrado, città abbandonata da Stalin durante l’attacco nazista, dove centinaia di migliaia di persone (750mila, secondo le stime ufficiali) vennero lasciate morire di fame e di freddo e non poche furono costrette a ricorrere al cannibalismo, in quanto il governo di Mosca si rifiutò di mandare viveri agli assediati.

Tragedia umanitaria
«È la dimostrazione», ci dice Nadia Cicognini, traduttrice e curatrice della versione italiana dell’opera, «che la resistenza di Leningrado per 900 giorni non fu una prova di eroismo, come volle far credere il regime comunista, ma una grande tragedia umanitaria dovuta a un efferato piano politico. Leningrado era infatti considerata una città non staliniana perché patria di dissidenti, non russa in quanto troppo europea, e pericolosa per via della presenza di esponenti dell’intellighenzia. Per questa ragione, secondo Stalin, meritava di essere distrutta».
La Berggol’c, che nella città trascorse l’intero periodo dell’asse - dio - dopo essere stata, per alcuni mesi, incarcerata e torturata al punto da perdere il figlio che aveva in grembo, in quanto considerata «doppiogiochista» dai vertici del partito - dovette testimoniare il dramma che vi si consumava in modo quanto mai riservato. Ufficialmente lei era una speaker di Radio Leningrado e aveva il compito di incoraggiare i concittadini e incitarli alla resistenza, fino a diventare - come altri intellettuali, arruolati nella propaganda di regime - la Musa del patriottismo sovietico.
Privatamente, invece, la Berggol’c appuntava sui fogli i crimini e le aberrazioni che Mosca consentiva accadessero, attraverso quella che lei stessa definiva «una congiura del silenzio». Nei diari la scrittrice evidenziava la disorganizzazione dell’apparato amministrativo, le lungaggini burocratiche, l’inefficienza delle difese militari e soprattutto la distorsione della verità, per cui era impossibile ammettere che a Leningrado si moriva di fame («La parola “distrofia” è stata proibita») e bisognava sostenere piuttosto che erano gli abitanti a opporsi all’invio di approvvigionamenti alimentari (Zdanov, alto dirigente del Partito comunista, faceva circolare la voce secondo cui «sono proprio i leningradesi a essere contrari a questi pacchi»).
Lo scenario descritto dalla Berggol’c è apocalittico: cumuli di morti accatastati in fosse comuni e scene di disperati, ormai senza cibo da mesi, che si avventano sui corpi di altre persone, per potersi nutrire. «I cadaveri giacciono a mucchi. Tra le cataste transitano i camion carichi di cadaveri, passando direttamente sui corpi senza vita e le ossa scricchiolano sotto le ruote» (23 marzo 1942). E ancora: «Ormai siamo allo stremo. Di recente i casi di cannibalismo sono in aumento. Prendel’ mi ha raccontato di due genitori che inizialmente si erano cibati del cadavere del loro bambino e poi hanno adescato altri tre bambini, e dopo averli uccisi li hanno mangiati» (20 maggio 1942).
Mentre la città moriva, il regime era preoccupato soltanto di garantire le medaglie ai vertici militari («Ritenendo ormai imminente la fine dell’assedio e pensando già alle decorazioni, l’istituzione si affretta a fornire il materiale per le medaglie. Che infamia!) e di denunciare i nemici della rivoluzione e i disfattisti (Ci hanno detto: «Istituite nelle case dei gruppi di sostegno dell’NKVD - la polizia segreta sovietica, ndr - per scovare le malelingue e gli allarmisti »).

Una doppia morale
Nel racconto affiora tutto il conflitto interiore della poetessa, costretta a una doppia morale e dilaniata da una schizofrenia tra la menzogna cui deve sottostare per sopravvivere e una fortissima tensione etica alla verità. «In questo senso», spiega la Cicognini, «la scrittura rappresentò per lei una forma di risarcimento. Nei diari si condensa la sua testimonianza autentica di socialista disillusa, rivolta non tanto ai concittadini e ai contemporanei, quanto ai posteri ». Proprio per preservare queste memorie, la Berggol’c seppellì i diari in un cortile, consapevole che presto sarebbero riaffiorati dalla terra e dall’oblio delle coscienze. Il 17 settembre 1941 scriveva profeticamente: «Oggi Kolja (il secondo marito, Nikolaj Molcanov, morto di distrofia alimentare durante l’assedio, ndr) seppellirà i miei diari. Se sopravvivrò, torneranno utili per raccontare tutta la verità sulla fede illimitata nella teoria e sulle vittime della sua realizzazione nella pratica».
A quella tragedia Ol’ga Berggol’c sopravvisse altri trent’anni, con un senso di colpa enorme per non aver reso pubblica, a tempo debito, la sua dissidenza (dagli anni Sessanta in poi smise infatti di scrivere). Morì nel 1975, chiedendo di essere sepolta nella stessa fossa comune dove era stato gettato il marito, ma il regime le negò anche questo gesto estremo di pietà. A noi piace ricordarla con i versi di Mandel’stam da lei stessa citati all’interno di Diario proibito: «Leningrado, non voglio ancora morire,/ i tuoi numeri di telefono sono rimasti a me,/ Leningrado, ho ancora i tuoi indirizzi,/ lì troverò le voci dei morti».