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 2013  novembre 23 Sabato calendario

OSWALD E I TRE AGENTI CHE NON DOVEVANO ESSERE LÌ


«Quando vedemmo tutta quella gente» racconta al Daily News Jim Leavelle, il poliziotto in abito chiaro e col cappello che teneva Oswald per il braccio nei sotterranei del quartier generale della polizia di Dallas, gli dissi: «Lee, se ti sparano, spero abbiano una buona mira». E lui di rimando: «Tranquillo, non mi sparerà nessuno». Pochi attimi dopo il probabile assassino di John Kennedy fu abbattuto dalla calibro 38 di Jack Ruby.
Se i colpi di fucile di Dealey Plaza sono una ferita ancora aperta nel corpo dell’America, un evento che ha cambiato la storia degli Stati Uniti e del mondo, l’unica pallottola sparata della Colt di un gestore di «night club» ha alimentato una tempesta di sospetti e teorie cospiratorie non ancora placata, mezzo secolo dopo.
Una foresta di ombre: il conflitto tra «federali» e investigatori texani, il capo dell’Fbi, Edgar Hoover, convinto che la polizia di Dallas fosse corrotta, un uomo, Ruby, sempre circondato da spogliarelliste e ragazze-squillo che riesce ad entrare, armato, nel fortino delle forze dell’ordine e a raggiungere il presunto killer del presidente. E che non darà mai una spiegazione plausibile del suo gesto. Mentre i suoi rapporti con la criminalità, ma anche con molti poliziotti che frequentavano i suoi locali notturni, alimenteranno le ipotesi cospirative più diverse, a partire dal complotto Mafia-Cia per eliminare un presidente che dava fastidio tanto al crimine organizzato quanto all’industria delle armi.
Una storia misteriosa e drammatica tutta racchiusa in pochi attimi di immagini riprese quel 24 novembre di cinquant’anni fa, una domenica. In Europa era ora di cena. L’America, appena tornata dalle cerimonie religiose, vide le immagini dell’assassinio di Oswald praticamente in diretta, mentre pranzava.
Tra questo scatto, di Jack Beers, fotografo del Dallas Morning News , e quello di Bob Jackson — l’altra celebre immagine con la smorfia di Oswald, colpito allo stomaco — passano appena sei decimi di secondo. Leavelle sembra impietrito. L’altro detective che tiene sottobraccio Oswald, L.C. Graves, salta subito addosso a Ruby e gli impedisce di sparare ancora.
La scena ha dell’incredibile: per raggiungere il furgone blindato che deve trasportare l’uomo accusato di aver ucciso Kennedy bisogna fendere una folla di settanta poliziotti in borghese e di una cinquantina di giornalisti. C’è anche Ruby e tutti lo conoscono. Quando Graves lo schiaccia a terra e con un dito blocca il cilindro della pistola per impedirgli di premere ancora il grilletto, l’assassino di Oswald grida quasi sorpreso: «Ma sono io, Jack».
Graves, che è morto nel 1995, dopo quei fatti ha continuato a lavorare nella squadra omicidi, ma non ha quasi mai più parlato della morte di Oswald. E quando lo ha fatto si è limitato a dire di non credere alle teorie cospirative. Respinte con veemenza anche da Leavelle che, a 93 anni, è uno dei pochi testimoni di quella tragica scena ancora in vita.
L’Fbi, non l’avrebbe voluto lì, ma oltre all’assassinio del presidente, un reato federale, c’era quello di J.D. Tippit, il poliziotto ucciso probabilmente da Oswald durante la sua fuga. E Leavelle e Graves erano incaricati di indagare su questo delitto, un reato statale. Dietro di loro, con un altro cappellone texano bianco, Leslie Montgomery, altro «detective» della squadra.
Perché lo spostamento del detenuto in una simile bolgia? Sono state date varie spiegazioni: il furgone blindato troppo grosso per passare dal portone d’ingresso, il desiderio di dare qualcosa in pasto alla stampa, la volontà di mostrare che Oswald non era stato picchiato, torturato. Ma ci sono tante altre vicende che alimentano i dubbi, come quella di James Hosty: l’investigatore dell’Fbi incaricato di indagare da tempo su Oswald, comunista e antiamericano, che lo cerca a lungo, parla due volte con la moglie, ma non riesce mai a trovarlo. O la storia di Richard Sims ed Elmer Boyd, i due investigatori che condussero gli interrogatori di Oswald il 22 e 23 novembre. Ruby era un amico di Sims, al punto che offrì di portagli bibite e panini durante l’interrogatorio. Sims lo andò poi a trovare in carcere chiedendogli il perché del suo gesto. E ottenendo una risposta curiosa: «Volevo risparmiare a Jackie Kennedy un altro strazio, quello del processo».
Massimo Gaggi