Bernardo Valli, la Repubblica 23/11/2013, 23 novembre 2013
TUNISIA, VIAGGIO NEL CUORE DELL’ULTIMA PRIMAVERA
QUI la “Primavera araba” non è fallita. Non del tutto. Arranca. Stenta ad affermarsi. Ma sopravvive in una sofferta transizione. Qui è nata e qui resiste, come un’ultima, vulnerabile trincea. Sono gli estremi istanti della moribonda estate mediterranea e ne approfitto in maniche di camicia sulla terrazza di un caffè.
UN TUONO di voci esplode e violenta il pacifico brusio dell’avenue Bourghiba. Grida gutturali irrompono nel torpore pomeridiano più favorevole alla siesta che alla rivolta. Sono invocazioni di sapore antico scandite con passione non con rabbia. Eventi, concetti di millecinquecento anni fa risvegliano come un fuoco d’artificio la quieta, ormai smorta atmosfera balneare di un giorno qualunque del ventunesimo secolo.
C’è chi implora il ritorno al califfato: ed è un bel salto a ritroso nel tempo rimpiangere quel sistema di governo del primissimo Islam, creato per garantire la successione del Profeta appena defunto (632 d. c.). Il califfato ottomano fu uno dei tanti remake, l’ultimo, e fu abolito (nel 1924) da Kamal Ataturk, celebre mangiamullah della storia turcomusulmana. Altri slogan urlati chiedono l’applicazione della sharia. Un ulteriore salto indietro nei secoli, per recuperare un insieme di norme ispirate dalla volontà di Dio trasmessa dall’Arcangelo Gabriele a Maometto.
L’atmosfera è surreale. La cornice è vacanziera. Turisti europei all’inseguimento della tarda estate sulla costa del Magreb sono raccolti attorno a tavolini affollati di coca cola light. Le esortazioni politico-religiose espresse con toni disperati dai giovani manifestanti musulmani fanno da sfondo musicale. La coreografia è arricchita dallo sventolio di bandiere nere e bianche. Sono gli stendardi dei salafiti, degli integralisti islamici non jihadisti, non violenti, non dediti al terrorismo. Un po’ fanatici ma frequentabili. Non pericolosi. Sono mistici agitati. I passanti e i clienti dei caffè all’aperto non sembrano troppo turbati, anche se un po’ sorpresi. Le braccia tese, i pugni chiusi, gli slogan usati come frustate, sembrano i gesti, i rumori di un corpo di ballo scatenato. Gli amici tunisini sono rassicuranti, spiegano che sono bigotti chiassosi. La loro presenza nel cuore della capitale è un segno che la “Primavera araba” non è del tutto morta. Non mi resta che accettare la spiegazione. Loro, gli amici tunisini, sono del posto, sono intellettuali attendibili e ai fanatismi oppongono l’ironia.
Le manifestazioni non violente sono una prova, sia pur non decisiva, di democrazia. E le manifestazioni sono frequenti, quando il clima politico si scalda sono quasi quotidiane. Sono in favore o contro il governo islamico. Le processioni si alternano e capita che degenerino in risse. Hanno intenti laici, ma sempre con un’impronta formale musulmana perché laico suona come un sinonimo di ateo (espressione scandalosa in terra islamica); oppure sono di chiara natura religiosa integralista come quella che irrompe nell’avenue Bourghiba. Le organizzazioni jihadiste, inclini al terrorismo, sono state messe fuori legge dal governo islamico dopo gli assassini e gli attentati di cui sono stati accusati. Non a torto. Questo rassicura ma non garantisce. La cronaca di fatti recenti ne é la prova.
Un mese fa, il 23 ottobre, Socrate Chemi, tenente della Guardia nazionale, è stato ucciso dai “terroristi” a Sidi Ali Ben Aoun, nel centro della Tunisia. A Kef, la città natale di Socrate, un grande manifesto lo ricorda insieme agli altri cinque gendarmi uccisi insieme a lui. Ma la gente di Kef non si è limitata a rendere quell’omaggio al concittadino morto in servizio comandato. Dopo i funerali, almeno un migliaio di uomini e donne hanno saccheggiato e incendiato l’ufficio di Ennahda, il partito islamista al governo, accusato di avere consentito a lungo agli estremisti, ai jihadisti, di agire liberamente, prima di metterli fuori legge.
Il gruppuscolo Ansar el-Sharia, dedito ad azioni violente, è stato proibito e i suoi seguaci sono ricercati dalla polizia. Ma anche il sindacato di gendarmi e poliziotti, nato dopo la cacciata di Ben Ali, il raìs fuggito tre anni fa nell’Arabia Saudita, rimprovera al governo di avere agito in ritardo. E lo considera quindi complice dei terroristi. Al punto che nella caserma di Aouina, nella periferia di Tunisi, le più alte autorità hanno subito, il 18 ottobre, una pesante umiliazione. Durante una cerimonia in omaggio ad altri due gendarmi uccisi, il presidente della Repubblica, Moncef Marzouki, il primo ministro, Ali Larayedh, e il presidente dell’Assemblea costituente, Mustafa Ben Jaafar, sono stati cacciati da gendarmi e poliziotti in collera. Sono stati inseguiti da insulti e minacce, e costretti ad allontanarsi senza badare al protocollo. La calma non prevale sempre nella mite Tunisia. Tra gli assassinati c’erano negli ultimi mesi anche esponenti di rilievo della società politica.
Vengo dal Cairo, dove è in corso una restaurazione di stampo bonapartista, e dove, nonostante i militari ne abbiano già celebrato i funerali, l’insurrezione di piazza Tahrir (del 25 gennaio 2011) è stata sepolta quando ancora respirava. O perlomeno emetteva qualche segno di vita. Non mancano i movimenti, sia pur smarriti e isolati, che continuano a richiamarsi allo spirito iniziale dell’insurrezione di stampo liberale, prima che venisse deturpata dal forviante e fallimentare intervento dei Fratelli musulmani. Quindi la rivolta originaria di piazza Tahrir potrebbe riemergere, col tempo, sulle sponde del Nilo. Chissà quando. Le correnti rivoluzionarie si disperdono e si riformano nel corso di decenni.
Qui a Tunisi, malgrado gli assassinii e le insubordinazioni delle forze dell’ordine, la “Primavera araba” invece continua tra mille ostacoli. È in mezzo al guado. Potrebbe concludersi con una restaurazione autoritaria, con un fallimento di tipo egiziano, come potrebbe compiere un importante progresso: vale a dire rispettare l’essenziale rito dell’alternanza attraverso il libero suffragio universale. È la grande posta in gioco di oggi.
Gli islamisti arroccati nel potere non sembrano troppo disposti a rispettare quel principio su cui si basa la democrazia. Sono al governo grazie a un libero voto ma danno l’impressione di non voler rispettare i termini del mandato. L’intesa era precisa. Un anno dopo l’elezione dell’Assemblea costituente, una volta redatta la Costituzione e stabilita la legge elettorale, si doveva ritornare alle urne per il nuovo Parlamento. Ma è trascorso più di un anno, la Costituzione non è ancora pronta, manca la legge elettorale e Ennahda non pare incline, come stabilito, a cedere il posto a un governo di tecnici incaricato di condurre di nuovo il paese al voto.
Non è facile schiodare gli islamisti. Sono entrati in ritardo nella rivoluzione, l’hanno scippata alle minoranze insorte contro la dittatura del raìs, imponendosi alle prime elezioni, ma adesso rischiano di perdere le prossime. Per questo sono riluttanti ad abbandonare il potere. La loro popolarità è crollata, la loro inettitudine nel governare ha squalificato il carisma religioso di cui usufruivano e ridimensionato il prestigio accumulato nella clandestinità e nelle prigioni del vecchio regime. Erano vittime, adesso appaiono inaffidabili a molti loro ex elettori.
Le notizie provenienti dal Cairo hanno gettato il panico tra i dirigenti di Ennahda. I quali temono di subire la sorte dei Fratelli musulmani cacciati dal potere e massacrati dai militari perché protestavano contro l’esautorazione e l’arresto di Mohammed Morsi, il loro presidente, eletto al suffragio universale diretto. In Tunisia non c’è una società militare come in Egitto. Habib Bourghiba, il fondatore della Repubblica, era al tempo stesso un capo arabo autoritario e un radicale della Terza Repubblica francese, alcuni suoi atteggiamenti erano quelli di un laico europeo. Diffidava dei militari e si è ben guardato dal creare un esercito forte.
Ma esistono la guardia nazionale e una polizia che, come in Egitto l’esercito, erano gli strumenti del raìs deposto. Dopo l’insurrezione del 2011 gendarmi e poliziotti hanno subito critiche e rancori per il loro ruolo di repressori, ma si sono adeguati presto al nuovo corso creando persino un sindacato. Hanno ingoiato le accuse, ma hanno approfittato delle nuove libertà avanzando rivendicazioni salariali e normative. Hanno ritrovato la grinta, al punto da cacciare da una loro cerimonia, come malviventi, il capo dello Stato, il primo ministro e il presidente dell’Assemblea costituente. Andranno oltre ? Sognano di imitare i militari egiziani?
Non c’è comunque in vista un candidato raìs, in divisa di poliziotto o di gendarme. Non ancora. Una svolta egiziana non è ritenuta imminente in Tunisia. Questo dicono i miei amici. La libertà di espressione è in generale rispettata, la stampa non risparmia le critiche al potere, anche se chi calca la mano rischia la galera. I rappers troppo impertinenti subiscono violenze. E’ capitato in agosto a uno tra i più popolari. Al festival di Hammamet, Ahmed ben Ahmed (detto Klay RBG) è stato riempito di botte per avere deriso il governo islamico. E’ poi stato condannato da un tribunale a un anno e nove mesi. Le manifestazioni dei giovani in suo favore l’hanno fatto liberare dopo qualche settimana.
L’ambiguità prevale spesso. Il governo esita, si contraddice, non osa imporre i principi coranici, li annuncia e li smentisce, non li applica con decreti. Occupa posti di potere, ma riceve schiaffi dalla polizia. Non osa cambiare le leggi promulgate dal “laico” Bourghiba. La poligamia è sempre proibita. Capita che si parli dell’imminente istituzione dei matrimoni brevi, esistenti in molti paesi arabi, ed anche nell’Iran degli ayatollah. Di fatto sarebbe come consentire la poligamia. Ma non si va oltre l’annuncio. Il quale basta tuttavia ai giovani delle università per metterlo in pratica.
Di compromesso in compromesso la “Primavera araba” continua nella Tunisia, laboratorio di una società musulmana liberale. Il principale esperimento in corso è l’incerto dialogo nazionale tra le forze politiche per arrivare alle dimissioni degli islamici riluttanti e alla formazione di un governo di tecnici incaricato di condurre il paese alle elezioni. Un risultato positivo sarebbe un rilevante passo avanti.