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 2013  novembre 23 Sabato calendario

IL MAL COMUNE


IL 22 ottobre 2012, per un soffio non si giocò. Il Genoa doveva ricevere la Roma allo stadio Ferraris ma gli arretrati delle amministrazioni pubbliche ci misero lo zampino. Il debito della Sporting Genova Spa verso l’Enel era ai livelli di guardia.

E IL gruppo elettrico era pronto a reagire: non avrebbe fornito l’alimentazione, se la società controllata dal comune di Genova non avesse pagato.
“Furono incomprensioni contabili, è tutto risolto” nota oggi l’assessore al bilancio della giunta comunale Francesco Miceli. Forse più che un equivoco, quell’episodio resta però soprattutto nella memoria di alcuni come la spia di un fenomeno più diffuso. Gli enti locali, in particolare (ma non solo) alcune grandi città del Sud, hanno fatto la loro scelta: messi alle strette sulla tenuta del bilancio, preferiscono finanziare i servizi sociali o pagare gli stipendi dei dipendenti piuttosto che saldare le bollette del gas, della luce o del telefono. Contano sul fatto che l’Enel, l’Eni o Telecom Italia non priveranno a cuor leggero una città di un servizio pubblico essenziale. Le grandi società di rete ricordano con discrezione di essere andate di recente in Via XX Settembre, sede del ministero dell’Economia, per consegnare una stima (informale) dei loro crediti verso le giunte comunali, provinciali, regionali d’Italia e verso le società municipalizzate. In pubblico non ne parlano, forse proprio perché le somme non sono trascurabili. Solo l’Enel vanta crediti verso le diverse strutture dello Stato per circa 300 milioni, benché i suoi clienti pubblici abbiano riconosciuto formalmente debiti per non più di 40. Altri grandi gruppi di servizi in rete tengono le carte gelosamente sul petto.
E’ comprensibile. Calcoli del genere sono alla base di un passaggio a vuoto sul quale il governo ha scelto di non accendere i riflettori in pubblico, ma che potrebbe avere delle conseguenze. In base a una legge approvata durante il governo di Mario Monti, per poter pagare gli arretrati dello Stato alle imprese occorreva entro l’estate un censimento credibile della loro entità. Ad oggi esiste solo una stima della Banca d’Italia basata su un sondaggio di poche migliaia di imprese: la cifra di 90 miliardi, di cui circa 17 già saldati, nasce proprio da qui. Ora però gli enti locali dovevano comunicare alla Ragioneria le loro pendenze e quest’ultima a sua volta aveva detto che per quella data avrebbe fatto conoscere al Paese lo stato reale dei debiti commerciali dello Stato entro il 15 settembre.
Quella data è passata ma il ministero dell’Economia non ha detto ancora niente. E se è difficile pagare tutti gli arretrati finché manca questo tipo di chiarezza, il silenzio della Ragioneria ha una ragione fondata: le versioni dei debitori e dei creditori per adesso non combaciano. Le imprese reclamavano appunto circa 90 miliardi. Ma gli enti locali a metà settembre riconoscevano debiti verso di loro per varie decine di miliardi in meno, e qui non c’è solo la scelta di sopravvivenza di rinviare i pagamenti all’Enel o all’Eni.
Ci sono i debiti fuori bilancio delle giunte, poi gli arretrati delle controllate. Il ministro dell’Economia Fabrizio Saccomanni ha voluto nella legge di stabilità un articolo (il 15) per responsabilizzare gli enti che esercitano il controllo e tagliare i compensi o licenziare i manager delle partecipate quando i conti sono in rosso. Dovrebbe essere l’inizio della fine della vecchia pratica di spostare debiti e assunzioni clientelari fuori dal bilancio degli enti. Ma le partecipate restano una nebulosa dai confini indefinibili. Il Tesoro stima che in ne esistano 7. 500 ma ha appena chiesto all’Istat un censimento per capire qualcosa dello stato complessivo dei loro conti, dei debiti e delle perdite. Il vuoto informativo su di loro è notevole per un Paese con il debito pubblico dell’Italia. Si sa che l’Atm Messina gira a mezzo servizio perché paga i salari con grande ritardo e cannibalizza alcune carrozze del treno di superficie, diminuendo la circolazione, perché la francese Alstom non dà più i pezzi di ricambio a credito. Salvatore Palma, assessore al Bilancio di Napoli, sa che le sue partecipate hanno perso 15 milioni nel 2012. E la sua collega di Milano Francesca Balzani ricorda che le sue partecipate portano anzi un sano dividendo di 92 milioni al Comune.
Ma nel complesso il peso finanziario delle partecipate è una nebulosa. L’Istat ha censito 4.338 controllate (sul 2010) sopra i cento dipendenti e con un ente pubblico socio al 50% o il Tesoro in posizione di controllo grazie a poteri speciali. Ci sono dentro anche Eni o Enel, ma nel complesso il loro margine operativo, cioè gli utili, sono pari a un quarto di quelli di tutte le imprese italiane: l’Italia è più socialista di quanto credeva di essere, con 371 imprese a controllo pubblico nel “commercio all’ingrosso e al dettaglio, riparazione di cicli e motocicli”, 69 in “servizi di alloggio e ristorazione” e 170 in “servizi di comunicazione e informazione”. Molti dei debiti commerciali attribuiti dalle imprese allo Stato sono distribuiti in questa terra incognita.
Sarebbe però ingiusto dare ai comuni la responsabilità per i conti dello Stato. E non è solo il fatto che secondo la loro associazione nazionale (Anci) rappresentano appena il 7,6% della spesa pubblica, il 2,5% del debito e hanno ridotto le uscite del 2,5% dal 2010 anche con un forte taglio agli investimenti. Perché c’è un punto più immediato, sottolineato dall’assessore al Bilancio di Milano (e europarlamentare del Pd) Francesca Balzani: le mancate scelte del governo sulle tasse sulla prima casa, ancora formalmente metà da abolire e metà no, “logorano le relazioni istituzionali”. E anche i bilanci delle città: a un mese dalla fine dell’anno i comuni rischiano un ammanco di mezzo miliardo di euro a causa della cancellazione dell’Imu. Milano rischia di ritrovarsi entrate per 110 milioni meno del previsto, Napoli 40 milioni: ammanchi che costano tagli all’assistenza sociale o aumenti di tariffe ai cittadini in tutti i servizi più essenziali.
La ragione è semplice: il governo non ha ancora confermato a 600 giunte cittadine in Italia che le rimborserà per la cancellazione della seconda rata dell’Imu sulla base delle aliquote locali maggiorate nel 2013. Tanti sindaci le hanno alzate fino al massimo del 6 per mille quest’anno per quadrare i conti, ma il Tesoro potrebbe rimborsarli dell’abrogazione con somme pari alle entrate del 2012. Ossia, appunto, mezzo miliardo in meno. «E’ difficile pianificare con queste incognite. Che credibilità puoi avere con i cittadini se il tuo orizzonte è sempre la settimana prossima?», si chiede l’assessore Balzani di Milano. «Se non possiamo contare su risorse certe per l’Expo 2015 o gli aeroporti, l’impatto negativo sulla crescita diventa enorme».