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 2013  novembre 23 Sabato calendario

IL MIO ROTH L’UOMO CHE HA SCRITTO SOLO DI SÉ


L’ANTISEMITISMO americano, già elevato durante gli anni Trenta, crebbe costantemente dopo l’inizio della guerra. I sondaggi dimostrarono che, in tutto quel periodo, più di un terzo dei cittadini era pronto a sostenere delle leggi discriminatorie. Non era solo una conseguenza della generale xenofobia prodotta dall’isolazionismo. Nel quartiere di Washington Heights, a Manhattan, tutte le sinagoghe furono profanate (e alcune imbrattate con svastiche); a Boston, dopo il 1942, pestaggi, devastazioni e profanazioni si verificavano quasi ogni giorno. Questa febbre infame, che rese impossibile l’immigrazione se non a pochi e che costò innumerevoli vite, giunse al suo apice storico nel 1944, anno in cui l’Olocausto era ormai più o meno completato.
E che dire dei mezzi di comunicazione? Nel maggio/giugno del 1942 apparve la notizia delle uccisioni: un rapporto documentato riportava la cifra di 700.000 morti. Il Boston Globe diede alla storia un titolo a tre colonne: “Omicidi di massa di ebrei in Polonia superano le 700.000 vittime”, e poi spediva l’articolo in fondo a pagina 12.

Il New York Times citò il giudizio del rapporto: «probabilmente il più grande massacro di massa della storia» – ma gli concesse pochissimo spazio. Possiamo permetterci di dire che questa reticenza è piuttosto sorprendente, considerando che la storiografia degli eventi di cui stiamo parlando conta oggi decine di migliaia di volumi.
Philip Roth avrebbe usato questo sfondo sporco e irresponsabile ne Il complotto contro l’America (2004), il suo ventiseiesimo libro; e l’antisemitismo e il suo corollario, l’anti-antisemitismo, dominano per intero la pubblicazione del suo primo libro Goodbye, Colombus e cinque racconti(1959). «Che si sta facendo per zittire quest’uomo?», chiese un rabbino. «Gli ebrei del Medio Evo avrebbero saputo che fare con lui». Alcuni pensarono che l’allegro esordio di Roth puntellasse le stesse «concezioni… che alla fine portarono a sterminare sei milioni di persone nei nostri tempi». Dopo un incontro pubblico carico di odio alla Yeshiva University di New York nel 1962, Roth giurò solennemente (su un panino al pastrami) che «non avrebbe mai più scritto nulla sugli ebrei».
Fu un giuramento vano. Ricordiamo, però, che Roth non aveva ancora trent’anni, e che uno degli inconvenienti di cominciare da giovane è che sei costretto a crescere in pubblico. Era fiero di essere americano, così come lo era di essere ebreo; un talento da vero guastafeste come il suo si sarebbe subito reso conto che la narrativa esige libertà: infatti, la narrativa è libertà, e la libertà è indivisibile (da cui, più tardi, il suo appassionato sostegno agli scrittori cecoslovacchi). Tuttavia, si potrebbe sostenere che, in un modo o nell’altro, Roth ci mise circa 15 anni a trovare la sua voce. La sua carriera, in seguito, è stata convenzionale, ma all’inizio fu sfrenatamente eccentrica – come un turbine misterioso e affascinante.
Claudia Roth Pierpont (nessun legame di parentela), nella sua vivace e intelligente monografia Roth Unbound, dice che il primo vero romanzo di Roth, Lasciarsi andare (1962), parla «del non lasciare perdere»: non lasciar perdere le responsabilità, gli obblighi e una generale serietà dell’uomo comune e, soprattutto, non lasciar perdere Henry James. Nel romanzo, il cast dei protagonisti è ampio e pluralista, ma sembra che ci siano ancora delle ansie etniche. Quindi che fare? Bene, a questo punto, Roth mise da parte un libro intitolato Jewboy, e dopo “anni di tormenti” (cinque, per la precisione), pubblicò Quando Lucy era buona, una saga impassibile tutta allgoy [di non ebrei] ambientata in una cittadina puritana e perbenista del Midwest. E qui potemmo gettare il primo sguardo sul demone che stava divorando la sua anima.
Allora pensai, ricordo, che ci fosse qualcosa di estremo e di spaventosamente eccessivo nell’eroina, Lucy Nelson (tenace, divoratrice e senza rimorsi); e pensai anche che lei era solo una parte di una storia non raccontata. I critici dissero che Quando Lucy era buona poteva essere stato scritto da una donna; altri, che poteva essere stato scritto da un Wasp (da Sherwood Anderson, forse). Eppure, ciò che il lettore stava cercando, allora, era un romanzo che solo Philip Roth avrebbe potuto scrivere.
Quel romanzo fu Lamento di Portnoy (1969) – una commedia pungente e gracchiante, una bomba a orologeria (esplosiva perfino tipograficamente, tanto da stabilire il record complessivo, nella narrativa tradizionale, di punti esclamativi, lettere maiuscole e corsivi). In esso, le tensioni e i conflitti dell’esperienza ebraico-americana sono ridotti al loro nucleo: le shiksa [le ragazze non-ebree]. La radice yiddish della parola significa “oggetto detestato”; in una logica matrilineare, i maschi goy sono tollerabili, ma le shiksa significano assimilazione e sono pertanto vietate. Proibite, detestate – e tanto più caldamente desiderate. Roth attaccò questo punto cruciale con un’energia senza pari; sembrò che quel talento turbolento e privo di una direzione avesse finalmente trovato una perfetta intonazione.
La livida luce che circonda Lucy Nelson, lo iato di cinque anni, la sensazione di una ferita che non prende aria, la folle risata di Portnoy, la rivolta contro l’alta serietà e l’abbraccio della frivolezza: le risposte cominciarono ad arrivare con La mia vita di uomo (1974). Questo libro racconta la storia del “raccapricciante” primo matrimonio di Roth e delle sue conseguenze, un rapporto iniziato nel 1956 e terminato solo con una morte accidentale nel 1968. È un romanzo che si legge tra le dita della mano che ci si porta di continuo al volto. L’enigma centrale è che Roth era evidentemente colluso nel proprio intrappolamento; e la spiegazione, come dice il suo alter ego, Peter Tarnopol, è che «la letteratura mi ha cacciato in questa situazione». In un giovane che ama intensamente i libri, c’è una certa attrazione per la difficoltà, per la complessità, perfino per il tormento. Ci sono numerosi esempi di scrittori che vanno a caccia degli intrecci più fantastici; fanno della miseria la propria musa, o ci provano.
Roth aveva trovato il suo soggetto, che è come dire che aveva trovato se stesso. La sua personalità, attraverso un’intricata rete di personaggi, doppelgänger e nomi di battaglia, avrebbe fornito la struttura (con un paio di eccezioni) dei successivi 19 romanzi. John Updike, una volta, ha affermato che la narrativa è in grado di sopportare qualsiasi quantità di egocentrismo, ma è del tutto allergica al narcisismo. Non vi è narcisismo in Roth; la creatura nello specchio è esaminata spietatamente e senza batter ciglio.
Portnoy è stato descritto sul quotidiano israeliano Haaretz «il libro per cui tutti gli antisemiti hanno pregato», più tossico perfino dei Protocolli dei savi di Sion. Nel corso degli anni, l’animosità della comunità ebraica è calata, lasciando il posto all’animosità coordinata o comunque corale del femminismo. Pierpont affronta scrupolosamente queste obiezioni, si chiede come e quando si presentino, facendo giustamente notare che le donne di Roth coprono una gamma molto ampia. Ma io penso che l’accusa di misoginia sia un ovvio errore di categoria. Come nel caso della critica rabbinica, vi è una certa giustificazione storica, ma sono entrambe sociopolitiche, non letterarie; sono, di fatto, anti-letterarie. Inoltre, la narrativa femminile non è forse piena di teppisti e di uomini spregevoli? Non accade lo stesso con quella maschile? L’eroina perfetta (che suona il violino, gestisce una società, è madre, mettiamo, di cinque figli e ha un marito di larghe vedute e un giovane e virile amante di nome Raoul) non può suscitare il minimo interesse in un vero scrittore; è già perfettamente rappresentata in un’infinità di romanzi che la ammirano – e che possiamo comprare in aeroporto.
Roth Unbound è una biografia critica di vecchio stampo, ma anche piena di inestimabili commenti e giudizi del Philip Roth di oggi. Ottant’anni, “fatto” di scrittura (o almeno così dice lui), si presenta come un uomo divertente, sagace, saldamente capace di autocritica (dei suoi primi libri e del suo primo matrimonio), rilassato, vivace e cordiale. Alla fine ci si trova d’accordo con il giudizio del personaggio che si spaccia per lui in Operazione Shylock, il quale dice al “vero” Roth: «Eppure anche i suoi occhi si sono inumiditi un po’, sa? So quello che lei ha fatto per la gente. Lei nasconde al pubblico il suo lato tenero: tutte quelle fotografie con la faccia arrabbiata e quelle interviste col tono di uno che non si fa fregare da nessuno. Dietro alle quinte, però, e si dà il caso che io lo sappia, lei è una persona che si lascia persuadere facilmente, signor Roth».
La sua opera, a quanto pare, ora è completa. Roth tende a dividere le opinioni: perché la grande originalità è, e dovrebbe essere, piuttosto difficile da digerire. A parte Portnoy e La mia vita di uomo, con la sua minacciosa potenza, ci sono, secondo me, altri tre capolavori. Penso alla lucentezza lapidaria de Lo scrittore fantasma, all’arduo rigore intellettuale de La controvita e alla lussureggiante ampiezza vittoriana di Pastorale americana. E, in generale, ci sono alcuni motivi che immancabilmente infiammano l’eloquenza di Roth: Israele; la vecchiaia e la mortalità; la malattia e la sofferenza; tutto il discorso sui genitori e, questo è più sorprendente, tutto il discorso sui figli.
Ne Il teatro di Sabbath, il ripugnante protagonista si vergogna di aver una volta avuto una moglie, e si consola al pensiero di non aver mai avuto un figlio – lui non è così stupido. I romanzieri non hanno sempre bisogno di sperimentare le cose. Qui vediamo l’abituale ed elementare miracolo della narrativa. Si pensi a Levov “lo svedese” e a Merry in Pastorale americana. Si può scrivere magnificamente sui bambini senza averne mai avuto uno; basta rivolgersi a quella madre surrogata che è l’immaginazione.

Traduzione di Luis E. Moriones © New York Times