Giuseppe Salvaggiulo, TuttoLibri, La Stampa 23/11/2013, 23 novembre 2013
DIETRO CHECCO ZALONE SI NASCONDE BARTHES
[Gennaro Nunziante]
Per Gennaro Nunziante, sceneggiatore e regista di «Sole a catinelle», il film di Luca Medici, alias Checco Zalone, che ha stabilito il record di incassi nella storia del cinema italiano, «il complimento più bello è quando dicono che non è cinema. E’ proprio quello che non volevo fare».
Che cosa vuol dire?
«Che il mio approccio con il linguaggio cinematografico è ironico: non mi prendo troppo sul serio e mi diverte più sovvertire un codice che omologarmi».
Qual è il codice dei film di Checco Zalone?
«Ci sono i codici di Luca e ci sono i miei, mescolati bene grazie alla differenza generazionale tra noi. Ho imparato da Leo Bassi l’indegnità del comico, da Leo De Berardinis la mescolanza dell’alto con il basso culturale in un linguaggio comico e poetico, da Roland Barthes che solo il banale può sorprenderci, da Maurice Blanchot che non bisogna essere padroni di un linguaggio, e che il fine ultimo d’ogni cosa che pensiamo o facciamo deve essere la gioia».
La sua gioia?
«Da sempre far sorridere. Ho cominciato negli Anni ’80 in una piccola tv locale barese. Un giorno vidi una telenovela argentina, Anche i ricchi piangono con Veronica Castro e decisi di trasformarla in una parodia in compagnia di due amici, Antonio Stornaiolo ed Emilio Solfrizzi. Funzionò».
La chiave del successo?
«La nostra telenovela si chiamava Filomena Coza Depurada, mescolava linguaggio alto e basso, citazioni colte e scadimenti ignobili, che poi è sempre stato il mio codice narrativo».
Ma il regista di Checco Zalone che faceva prima di Checco Zalone?
«Scrivevo racconti e poesie ironiche, la raccolta s’intitolava Sfasciando biscotti. Leggevo Marianne Moore, Sandro Penna, Mario Luzi (tra i più grandi di sempre, la sua profonda fede gli è valsa una ridicola emarginazione), Camillo Sbarbaro, a cui ho reso omaggio durante le riprese a Santa Margherita Ligure, sua città natale, tanto che mia moglie Margherita mi ha regalato la prima edizione del 1954 di Neri Pozza di Pianissimo. Poi, oltre Barthes e Blanchot, Ronald David Laing, Gilles Deleuze. Amavo i dadaisti».
C’è molta Francia.
«L’amore per la Francia nasce con Paul Valéry, l’estate andavo a Sete, sua città natale. Anche Brassens e Vilar sono setoise, poi sulle tracce di Barthes ho frequentato Parigi negli Anni 90».
E Laing?
«Scoperta giovanile, mi colpì un suo scritto: l’insegnante interroga l’alunno che non sa rispondere, allora chiede la stessa cosa a un alunno al banco che risponde perfettamente. Laing chiosa: “La vittoria del secondo è stata costruita sulla sconfitta del primo”».
Altri libri giovanili che sono ancora fonti di ispirazione?
«Il grande tiratore di Kurt Vonnegut è un libro che ho amato tantissimo da ragazzo, me lo consigliò Stefano Cavedoni, cantante degli Skiantos. L’uomo che fu giovedì di Gilbert Keith Chesterton è un capolavoro di scrittura e trovate comiche. E poi Vila Matas con Storia abbreviata della letteratura portatile. Tutte le volte che lo ritrovo nella mia libreria rispunta una vecchia idea di scrivere un film comico sui dadaisti».
Manca la letteratura italiana.
«No, ha un posto rilevante. Oltre ai poeti preferiti - Saba, Penna, Sbarbaro - penso al primo libro che ho letto, Se la luna mi porta fortuna di Achille Campanile. Rimasi folgorato da un passaggio: racconta un aneddoto, va a capo e scrive “Incredibile non disse nessuno”. E poi c’è il mio sceneggiatore ideale, Ennio Flaiano».
E la sua Puglia, così di moda?
«Voglio bene e apprezzo i romanzi di Donato Carrisi e Mario Desiati. Mi piacciono gli scritti di Franco Cassano, un nuovo modo di intendere la nostra terra e i nostri destini».
Come incontra il cinema?
«Mio padre era un tappezziere e gli commissionarono un sipario per il cineteatro parrocchiale. Cominciai come aiutante proiezionista e con altri ragazzi facevamo spettacoli comici».
E da grande?
«Ho scritto un soggetto che si chiamava Film muto, è piaciuto molto ad Alessandro D’Alatri, Leone Pompucci e Cristina Comencini che mi hanno chiesto di scrivere insieme i loro film».
Quando e come nasce il personaggio Checco Zalone?
«Luca ha inventato una maschera modernissima che evolve senza perdere freschezza e incisività. L’ho conosciuto in una tv locale, condividendo subito un modo di fare ridere oltre che di stare in questo ambiente, senza prenderci sul serio».
C’è differenza tra un vostro film e un cinepanettone?
«Il cinepanettone è stato il risultato di piccole sovversioni sul canovaccio della commedia all’italiana degli Anni 60, quelle piccole sovversioni che poi producono grandi conformismi. E’ andato in crisi di cinismo; per una parte della società risulta vecchio perchè c’è un cinismo più avanzato, un’altra non sente più bisogno di cinismo perchè lo subisce quotidianamente. Il nostro processo comico poggia su una diversa costruzione, simile alle finte di Diego Milito: fare andare tutto il discorso da una parte e poi chiudere in comicità da un’altra che non t’aspetti».
Che cosa pensa dell’associazione con il filone cafonal?
«Quel filone è una semplificazione, un’omissione di comodo. La comicità di Checco è soprattutto facciale e trova radici nei cartoni animati di cui si è cibato da ragazzino e nei film di Celentano e Pozzetto».
Mentre scrivevate il film che cosa leggevate?
«Io poco, in quei momenti mi aiuta di più ascoltare musica. Durante le riprese ho riletto Il genio di Teresa di Lisieux di Jean Guitton. Quando ci siamo chiusi in sala montaggio non c’era tempo. Ora ho ripreso a leggere, ho terminato da poco Il soffio del mite di Barbara Spinelli, a ogni pagina mi veniva voglia d’abbracciarla, e Stress e libertà di Peter Sloterdijk. Luca legge tanto e va al cinema più di me, è innamorato di Kaurismäki. In hotel aveva la biografia di Steve Jobs e un libro di quel terrone comunista di Pino Aprile».
Gli ha mai regalato libri?
«In principio era la gioia di Matthew Fox: sembra il manifesto del nuovo papato. È incredibile, da troppi anni siamo cristiani senza sorriso. Mi piacerebbe realizzare una nuova versione della messa televisiva, senza quei “cattolici osservati” dalle telecamere, un rito spoglio di preghiera e profondità».
E il Checco cinematografico legge?
«In Cado dalle nubi comprava un libro e diceva al commesso “se non è buono te lo porto indietro”».