Domenico Quirico, La Stampa 23/11/2013, 23 novembre 2013
SIRIA, LA FEROCE GUERRA DEI COMBATTENTI CECENI
La caligine calda soffocava l’agosto di Aleppo, due anni fa: la rivoluzione era ancora gioventù selvaggia, un preludio, tutto squillava e rimbombava, non come ora ometti sornioni e feroci a caccia di un ruolo importante e di bottino. Quel frammento del quartiere di Salaheddin era ancora intatto, miracolosamente, come il corpo di un ucciso.
«Alexander, ma questi ceceni dove sono…?» Alexander, a testa china, tagliava con cura i pezzi del formaggio, uno dopo l’altro. Li mangiava con la buccia, lentamente. Due bambini erano entrati con un uomo, il padre forse, nel cortile della scuola che era il comando di una brigata. La katiba «Ubada ben al Saamet»: un nome che faceva tremare, di ammirazione di commozione di rispetto; la gente si inchinava e stringeva gli occhi quando lo pronunciava, quel nome, ad Aleppo.
Aleppo martire, assediata bombardata fatta a pezzi dagli aerei e dagli elicotteri, dai mortai di Bashar il sanguinario.
Non guardavano Alexander, per loro era come se non esistesse nemmeno, guardavano il formaggio. Non gli toglievano lo sguardo di dosso. Ne erano affascinati. Tutte le volte che Alexander tirava fuori un pezzo, il loro sguardo si illuminava, seguiva il frammento nel suo viaggio verso la bocca, e quando mordeva, esprimevano un’ansia acuta che si trasformava in disperazione quando inghiottiva l’ultimo boccone. C’era ancora formaggio? Questo era l’importante.
Il compagno interprete
Alexander continuava freddamente a rimpinzarsi. «Ancora niente? I ceceni… quando arrivano i ceceni?». «Arrivano, arrivano… sono andati a finire un lavoro poi torneranno. Quelli tornano sempre quelli sono immortali…».
Guardo fuori: in fondo alla strada la moschea dalla cupola verde, nuda, e questa nudità suggerisce una forza invisibile, in quello scompiglio, come quella dei nostri grandi chiostri. La moschea è lì, al centro della battaglia come se fosse immortale. Ecco dunque Salaheddin: la verità, la leggenda e la forza oscura che tramuta in epopea i combattimenti passati, tutto si congiunge in questo quartiere brucato dalle bombe. Qui i combattenti normali non vanno più. I rivoluzionari bambini di Aleppo quando gli chiedevi di Salaheddin abbassavano la testa, umiliati: «Là ci sono soltanto i ceceni...». Gli epici vagabondi venuti dal Caucaso a fermare con le loro mani di montanari addestrate ai bazooka le divisioni del tiranno.
«Il tempo passa. I tuoi ceceni non arrivano...» dico in russo. Alexander si alza, infastidito, va sulla strada, due mitragliatrici vigilano posate sul loro treppiede come gatti egiziani sulle zampe posteriori. Rovine a destra e a sinistra, gli occhi non raggiungono il cielo. Lontano, si odono brevi raffiche di mitragliatrice come scoppi di risa nel silenzio. «Arrivano, non seccare! Ma i soldati e gli shabiha non si arrischiano più nelle strade, se non c’è l’elicottero… adesso è diventato difficile persino fare le imboscate con quei fifoni...» e ride, guardando per la prima volta i due bambini.
Non mi piaceva Alexander, cristiano ortodosso; era tondo e grasso in un mondo di uomini affilati dalla fame, dalla guerra, dalla tensione di affrontare ogni giorno la morte. Il russo l’aveva imparato a Smolensk che era ancora Unione Sovietica, allora. «Che ci facevi a Smolensk negli anni settanta, Alexander? Tu un siriano in Bielorussia...» «Rabota, lavoro» rispondeva lui scivolando via svelto dall’argomento, «non sai che Afez Assad e i comunisti erano alleati?». Ora fa l’interprete, Alexander, l’interprete dei ceceni: «Se non ci fossi io che traduco come la farebbero la guerra quelli, pregano Allah ma non sanno una parola di arabo» sogghigna come se quei fratelli nell’ordine della Notte potessero vivere solo nelle sue parole, nei suoi vocaboli.
Dei ceceni, due anni fa, parlava nessuno, non come ora che Tarkhan il caucasico dicono sia diventato uno dei capi ad Aleppo, solo voci allora: leggenda, come la katiba di Salaheddin, la katiba dei ceceni i primi tra i combattenti stranieri venuti a battersi in Siria, con le bandiere nere degli islamisti che impedivano ai soldati di riprenderselo il quartier maledetto. Qualche decina di uomini contro un esercito: eppure erano ancora là.
«Eccoli, arrivano» sibila Alexander nascondendo svelto in tasca il formaggio, come se si vergognasse. Li sentiva. Perché arrivava un tuono lontano, cannonate sibili fragori, come se la guerra si fosse svegliata e messa in movimento l’artiglieria bombardava, e sembrava che il cielo dovesse spaccarsi e cedere sotto le incalzanti vibrazioni dell’aria... «Se la portano dietro la guerra, quelli, li segue come le pulci il cane...».
Esco a guardare: due file di uomini, una ventina, avanzano aggirando disinvoltamente le rovine che ingombrano la strada, dritti, il fucile come per una battuta di caccia, libero e stretto sotto il braccio. I ceceni, eccoli; alcuni, ora che sono vicini, sorridono ondeggiando di qua e di là, come se avanzassero a passo di danza, i primi calciano davanti a sé un pallone, un pallone da calcio sgonfio e sudicio trovato chissà dove.
Versetti e frasi di Lenin
Entrarono. La maggior parte vestiti di nero, galabie afgane, ingrigite dalla battaglia. Altri con giubbotti mimetici, camicie militari, qualcuno con le fasce verdi e i versetti del Corano strette come bandane attorno alla testa. Occhi, volti, barbe brizzolate, assire: facce che ricordavo, tanti anni fa, a Grozny, la prima guerra cecena. Mi avevan tenuto prigioniero, i ribelli, due giorni con il mio amico russo Serghej. Non si fidavano: siete spie! Il ricordo non sembra invecchiato con me. Questi ceceni sono ragazzi, eppure sono gli stessi di Grozny. Sì, razza dura e accanita. Gente che uccide senza collera, con indifferenza semplicemente perché può farlo, come il terremoto o l’alta marea.
Abu Majed, il nome di battaglia, non ha gradi ma si capisce subito che è lui che comanda. Lo capisci da come gli altri lo guardano e gli fanno posto. Da come uno dei ragazzi gli porge, quasi come una offerta sacra, una galletta di pane fresco. Posa il lanciagranate, il trasmettitore, con delicatezza, come se fossero fragili. Si siede su una poltrona sfondata in quello che un tempo era l’ufficio del preside; la foto di Assad è ancora per terra in un angolo. «Chi è questo?» Chiede ad Alexander, la faccia aggrottata, diffidente. «Sono un giornalista» rispondo io, in russo. Abu Majed si illumina: «Parli russo! magnifico... magnifico!... Portate il tè...». Dalla porta spuntano le facce degli altri, chiassosi felici.
È così che ho conosciuto i ceceni, i nuovi signori di Aleppo, che sono andato con loro in guerra nel quartiere di Saif al Daula, il cuore di tenebre della battaglia.«È qui che le sorti della battaglia si decidono» mi disse Abu Majed - «Dobbiamo fermare l’esercito di Bashar, noi siamo lo scudo di Dio».
«Perché sei venuto qui ? - gli chiedo - questo non è il tuo Paese...». Mi guarda bevendo il tè con un sorriso frettoloso: «A scuola i comunisti mi hanno insegnato una frase di Lenin, lo conosci Lenin? Sarà nostro un mondo che non abbia sanguinato fino all’ultima goccia?... A Grozny abbiamo perso, lo sai. Ma questa è la stessa guerra, una santa guerra. I nemici sono gli stessi, i russi e i loro servi siriani, le armi con cui cercano di ucciderci e li uccidiamo hanno la stessa marca di allora, i soldati di Bashar combattono, male, ma come hanno loro insegnato i russi... e poi bombardamenti, quartieri rasi al suolo: non è nemmeno cambiato lo sfondo...».
La battaglia di Salaheddin
A Salaheddin i due campi si fronteggiavano separati da una strada, la strada numero dieci. Ma a Saif al Daula era peggio, il fronte non c’era, gli avversari separati da una terra di nessuno di qualche centinaio di metri, infestata dai cecchini. «Dai, vieni con noi, andiamo a caccia di pidocchi domani… vedrai come combattono i ceceni».
Il primo morto fu un soldato, trecento metri oltre la moschea; era coricato sul dorso con lo sguardo fisso, solo occupato in apparenza a godersi la vista del cielo. «L’abbiamo preso ieri, mi spiega un ceceno, l’abbiamo interrogato un po’, sai… ma non aveva gran che da dire. Prigionieri non ne facciamo... i prigionieri mangiano, fanno perdere tempo». E ride soddisfatto. La linea qui è una strada d’asfalto e un palcoscenico di palazzi abbandonati, nessun essere umano. Non c’è nemmeno una casa che si possa ancora usare come alloggio. Non un tetto, niente muri, dappertutto solo monconi dritti sotto il sole grigi, a pezzi, maciullati. I cavi della luce tagliati, spezzati formano una fitta giungla di rampicanti, drappeggiano su ciò che rimane dei pali o serpeggiano, semplicemente, sul terreno. I miei ceceni si muovono senza fretta tra lo sfacelo di travi e di muri sgretolati come se avessero in testa una mappa che li guida. C’è puzza in giro, un fetore insopportabile: «Cadaveri» mi spiegano due che bevono il tè nel salotto di una casa distrutta, il kalashnikov appoggiato a una feritoia ricavata nel muro. Cecchini. «Le case erano piene di gente quando il Mig le ha distrutte... impossibile portarli via, i cadaveri».
Sotto i colpi dei mortai
I soldati ora devono averci sentito, i mortai pazienti cominciano a cercare, sbocconcellando tassello dopo tassello la mappa delle rovine, un colpo qui, poi più avanti e ancora ancora. Avanziamo sempre, come se le rovine fossero enormi scogli che ci riparano dal mare delle schegge e dei colpi. Il walkie talkie di Abu Majed gracchia: «Ismail è morto». Lui non dice niente, interrompe la comunicazione. Fa un cenno ai compagni: ora si muovono svelti, come se improvvisamente avessero uno scopo, un obiettivo da raggiungere. Entriamo in un palazzo, sembra meno sciupato degli altri; una scala di cemento, l’acqua scende in un rivolo scuro, tubi tranciati dalle bombe. Entriamo in un appartamento, la porta è divelta, dentro i mobili bianchi di polvere e calcinacci ci guardano come se fossero ostaggi. Ci sono ceceni, silenziosi, al centro del gruppo inginocchiato un uomo, un soldato, capisco dall’uniforme. Un guerrigliero gioca con il suo elmetto, ci sono sopra le sigle della polizia militare. Il volto è una maschera di sangue, gli occhi il naso le labbra enormi per i colpi . Guaisce, piano, come se non volesse far troppo rumore, ma senza interruzioni. Il rumore, quel rumore sembra riempire la stanza. Abu si avvicina, da dietro. Non ho il tempo di voltarmi, di chiudere gli occhi. Il coltello sbuca da una tasca la gola si squarcia. «Adesso sai cos’è la guerra compagno: tenace costante violenza. Uccidere, punire, costringere, pulire. Questa è la vita...».