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 2013  novembre 24 Domenica calendario

INTERVISTA A BRUNO SERATO

«Bruno, ma non lo non vedi che questo bambino ha fame? Preparagli subito una pastasciutta!». Nel 2005, quando andò per tre mesi in vacanza dal figlio chef in California, mamma Caterina era ancora una vegliarda in gambissima, una marescialla che per una vita era stata abituata a impartire ordini nella cucina della trattoria Cristallo di San Bonifacio, in provincia di Verona. Non come oggi, che ha 89 anni, e il morbo di Parkinson s’è portato via la sua mente, e giace inerte su una carrozzina con gli occhi chiari semichiusi, nutrita per mezzo del sondino nasogastrico, vegliata 24 ore su 24 da due badanti. Bruno Serato aveva portato la madre in visita a un Boys & girls club of America, uno degli oltre 4.000 esistenti negli Stati Uniti, in parte finanziati dal governo federale, che assistono 4 milioni di fanciulli in situazioni familiari disagiate.
Il comando fu prontamente eseguito. Del resto, sai che impegno, un piatto di spaghetti al pomodoro, per Serato, proprietario del White House restaurant di Anaheim, 45 chilometri da Los Angeles, classificato come «eccellente» da Zagat, la guida che negli Usa è il corrispettivo della Michelin? Fino a quel 18 aprile, era stato abituato a destreggiarsi fra linguine alla calabrese a 24,95 dollari, penne all’amatriciana a 23,95, spaghetti all’aglio e olio a 19,50, e soprattutto wagyu steak, il manzo di Kobe, 85 dollari per 4 etti e mezzo di bistecca, che annaffiata da una bottiglia di vino porta il conto finale a 150 e passa dollari.
È nata lì, mentre il piccolo ospite mangiava a quattro palmenti gli spaghetti fumanti alla napoletana ca pummarola n’coppa, l’idea che ha completamente cambiato la vita di Serato. «Sì, perché il direttore del club che di giorno ospitava quel bimbo di 7 anni mi ha spiegato che altri 40 coetanei erano nelle medesime condizioni: la sera saltavano la cena. In America! Ma si può? Così dal giorno dopo di pastasciutte ho cominciato a cucinarne 40».
Da allora Serato non ha più smesso, come racconta nel suo libro Feeding the kids in America, sfamare i bambini d’America, che ha un sottotitolo che in italiano suona pressappoco così: «Perché uno chef dovrebbe regalare più pasti di quelli che vende». Attualmente prepara 600 pastasciutte, sette giorni su sette, per 600 ragazzi. Lo fa attraverso il Caterina’s club, un ente non profit intitolato alla madre che sta facendo scuola nel mondo. A cominciare dal suo paese d’origine: Fulvio Soave, direttore del Soave hotel di San Bonifacio affiliato alla catena Best Western, ha seguito l’esempio, dando vita alla fondazione Mamma Anna che ogni mezzodì distribuisce 20 pasti. «Il mio sogno», spiega lo chef italoamericano, «è che ogni collega del mondo cucini 10 piatti gratis al giorno. Scomparirebbe la fame». All’albergo Boiardo di Scandiano (Reggio Emilia) l’hanno preso in parola e progettano di fare lo stesso in onore di mamma Iris, mentre a Chicago si stanno ponendo le basi per una fondazione intitolata a mamma Theresa Terranova. E siccome la bontà è l’unico investimento che non fallisce mai, come insegnava nell’Ottocento un filosofo del Massachusetts, da Parma s’è fatta viva la Barilla, che ha donato 3 tonnellate di pasta al Caterina’s club, una scorta sufficiente per quasi un anno.
Arrivato al mezzo milione di piatti distribuiti, Serato ha invitato a servire in tavola gli attori Paul e Mira Sorvino, padre e figlia. Ah, bisognava vedere lo spettacolo dei bambini alle prese con fusilli e maccheroni sotto gli stucchi dorati dell’Anaheim White House restaurant, tra pareti affrescate, tovagliame di lino, posate d’argento, sedie rivestite di broccato, tendaggi e drappeggi di seta, specchiere Luigi XVI, in quella che viene considerata una piccola succursale della Casa Bianca, e non solo per il nome, per il colore, per lo stile neoclassico coloniale e per le 10 private rooms intitolate ad altrettanti presidenti degli Stati Uniti d’America, da George Washington a John Fitzgerald Kennedy, ma anche perché due inquilini dell’altra White House, quella di Washington, qui sono venuti a mangiare per davvero: il primo è stato Jimmy Carter e il secondo George Walker Bush. Da sempre ben frequentata, la Casa Bianca di Serato: nell’albo d’oro dei clienti sono conservati gli autografi dei governatori Jeb Bush e Gray Davis; degli attori Janet Leigh, Sydney Poitier, Andy Garcia, Danny De Vito, Lauren Hutton, George Burns ed Eva Gábor, sorella della mitica Zsa Zsa; del calciatore Pelé; dell’astronauta Alan Shepard, primo americano a volare nello spazio, che lasciò questa dedica: «Il miglior ristorante che abbia mai visto dalla Terra alla Luna»; dei cantanti Andrea Bocelli, Connie Francis e Gwen Stefani, innamorata dei ravioli all’aragosta di Serato, cresciuta a 500 metri dal locale e considerata la nuova Madonna (l’originale, Louise Veronica Ciccone, ha invece voluto il catering del White House sul set di un videoclip girato a Hollywood).
Non che lo chef dei Vip si senta per questo un arrivato. Emigrato negli Usa nel 1980 con appena 200 dollari in tasca («più di oggi», apre il portafogli e ne mostra 50), senza sapere una sola parola d’inglese, ricominciò da lavapiatti la gavetta che s’era già fatto da cameriere e da cuoco nella trattoria della madre e poi nei ristoranti Dal Moro a Soave e Da Oreste a Lazise. Sgobbando 18 ore al giorno, nel 1990 riuscì a farsi concedere un mutuo, 1 milione di dollari, dalla Small business administration, l’agenzia del governo federale che sostiene le piccole imprese, e rilevò il White House restaurant, 300 coperti, 20 dipendenti fissi che salgono a 55 nei periodi fieristici, più altri 50 impegnati nel catering. «Oggi continuo a lavorare sodo per pagare la rata del mutuo, 10.000 dollari al mese».
È una somma enorme.
«Il finanziamento aveva una durata di 26 anni, ma ho dovuto ricontrattarlo: con la crisi gli incassi sono diminuiti del 40 per cento. Per cui il ristorante sarà mio, se tutto va bene, nel 2033».
Lei che età avrà nel 2033?
«Non infierisca: 77 anni. Lo so, è da pazzi. Sono nato nel 1956 a Laon, nord di Parigi. I miei genitori vi erano emigrati nel 1951 a raccogliere patate e barbabietole. Dei sette figli, io sono il quarto. Nel 1967 ci riportarono in Italia. Mi fecero studiare fino alla terza media. Parlavo il francese. Per essere un buon cameriere mi mancava l’inglese, così raggiunsi in California mia sorella Stella, la primogenita, che aveva sposato un militare della Setaf conosciuto a Vicenza. Dovevo restare da loro il tempo d’imparare la lingua. Invece sono negli Usa da 33 anni».
Mai pensato di rimpatriare?
«Più volte. Ma resistetti per sfidare mio padre, che mi aveva pronosticato: “Fra un mese sarai di nuovo qua”. Invece tornai dopo un anno e mezzo. Per scoprire che l’Italia non mi piaceva più: qui era tutto piccolo, tutto buio. Troppa maleducazione. Troppe bestemmie. Non le sopporto. Pur non essendo un bigotto, trovo assurdo prendersela con Dio. In America la blasfemia non esiste».
Il suo primo lavoro in California?
«Sguattero alla Vie en Rose, un ristorante di Brea, dove fui assunto grazie al mio francese. Dopo una settimana ero già commis di sala. Dopo un anno, cameriere. Passati sei mesi, capitano di sala. Trascorsi tre anni, direttore».
Ma ancora non le bastava.
«Avevo messo gli occhi sulla White House, una villa coloniale costruita nel 1909 da Dosithe Gervais in mezzo alle sue piantagioni di arance. Nel 1916 un medico di origine ceca, John Wenceslaus Truxaw, ginecologo, padre di 9 figli, ancor oggi famoso in tutta la contea di Orange per la sua generosità, ci aprì un piccolo ospedale, dove con la moglie Louise, infermiera, fece nascere almeno 3.500 bambini. Nel 1981 fu trasformata in ristorante da Jim Stovall, che sei anni dopo la mise in vendita perché gli affari andavano male. Bussai alla sua porta. Chiedeva 1 milione di dollari. Non li ho, risposi. Lui mi strinse la mano: “Mi piace la tua onestà. Affare fatto. Intanto te la affitto e fra tre anni vedrai che la banca ti concederà un prestito”».
Chi sono i bambini che lei sfama?
«Li chiamano motel kids, perché vivono nelle camere dei motel. Di giorno mangiano a scuola, ma la sera resterebbero senza cena: nelle stanze non ci sono fornelli. I genitori lavorano a Disneyland o nelle fiere, pagano 40-50 dollari al giorno e si spostano da un motel all’altro in cerca della tariffa migliore. Ho visto nonna, mamma e otto figli da 1 a 12 anni ammassati in una camera. Nella sola Anaheim ci sono almeno 2.000 famiglie che campano così. I piccoli, oltre alla fame, patiscono ogni tipo d’insidia, perché nei motel si aggirano spacciatori, prostitute, clandestini, pedofili».
Quanto le costa il Caterina’s club?
«Per cinque anni mi sono arrangiato da solo, spendevo 4.000 dollari al mese. Adesso ho dovuto comprare tre pulmini e assumere tre autisti per distribuire i pasti cucinati nel ristorante. L’intera operazione costa 100.000 dollari l’anno».
E allora come fa?
«Mai sentito parlare della provvidenza? S’è accorta di me Katie Couric, l’intervistatrice dei presidenti americani che conduce Evening news sulla Cbs. Poi è venuto a intervistarmi People, il settimanale più diffuso negli Usa. Alla fine la Cnn mi ha inserito fra i Top Hero, primo e unico italiano a essere stato nominato uno dei 10 eroi selezionati fra 40.000 candidati nel mondo. E così sono cominciati a piovere aiuti da ogni parte: 5 dollari dai pensionati, 10 da una bimba di 9 anni che abita a New York, ma anche assegni di 50.000 dollari da anonimi. Raccogliamo dai 200.000 ai 350.000 dollari annui di beneficenza. Il bilancio è controllato dal governo federale. Una volta l’anno Kfi, la prima radio di Los Angeles, 2 milioni di ascoltatori, fa una diretta dal mio ristorante, nel corso della quale cuciniamo 5.000 chili di pasta, condita con 5.000 chili di salsa, e raccogliamo 150.000 dollari. Che servono per aggiungere agli spaghetti, negli altri 364 giorni, anche tacchino, pollo, salmone, verdure, insomma quello che va dato ai bambini. Oltre all’immancabile pizza».
Una macchina da guerra.
«Tre o quattro volte l’anno invito 400 bambini a mangiare nel ristorante. Faccio riempire il giardino con tre tonnellate di neve artificiale e ci metto gli scivoli. I miei clienti si prendono qualche palla ghiacciata sulla nuca, ma sorridono. Ai genitori dei motel kids mancano i soldi delle due mensilità di caparra per affittare un alloggio vero. Allora provvede a versarle il Caterina’s club, a condizione che abbiano un lavoro da almeno sei mesi, due figli e la fedina penale pulita. Poi li assistiamo per un anno. Abbiamo già sistemato in questo modo 45 famiglie».
Ma è una piaga solo della California?
«No, nazionale. Negli Usa ci sono 20 milioni di famiglie senza casa e senza lavoro. Nella gaudente Florida è persino peggio che da noi. Nessun bambino, in nessuna parte del mondo, dovrebbe andare a letto con la pancia vuota».
A lei è mai capitato?
«Mai, neanche quando i miei erano contadini in Francia. Per 20 anni la sera ho trovato in tavola solo il caffellatte col pane raffermo. Ma ho sempre mangiato. I vestiti erano quelli usati che ci passavano i vicini di casa, di miei non ne avevo. Però la pastasciutta a mezzogiorno era assicurata. Ogni tre-quattro mesi torno a trovare mia madre e vedo che la situazione italiana peggiora sempre di più».
Siamo alla fame?
«Quasi. Di sicuro le famiglie non possono più permettersi la pizza fuori casa due volte al mese. Ho un fratello termoidraulico. Ha appena perso il lavoro, in casa entra solo lo stipendio della moglie, che fatica una decina di ore al giorno per pochi soldi. Ho dovuto comprare io le scarpe da football a mio nipote. Impedire a un bambino di 10 anni di giocare a calcio non è come togliergli il cibo? In Italia nessuno è più allenato a chiedere, a stendere la mano. Eppure di gente che ha fame, ma non ha il coraggio di farlo sapere in giro, ce n’è tanta. Il 23 dicembre il mio amico Fulvio Soave chiude per un giorno il suo hotel e lo mette a disposizione degli indigenti. L’ultima volta alla cena di Natale hanno partecipato 70 persone: una sola famiglia straniera, gli altri erano tutti italiani».
Ma lei perché fa tutto questo?
«Mia madre è figlia di un pastore, Giovanni Lunardi, morto a 95 anni e tuttora ricordato a San Bonifacio per la sua generosità. Durante la seconda guerra mondiale non ha mai rifiutato ai poveri e agli sfollati il latte per i loro bambini e un pezzo di formaggio. E nelle notti d’inverno apriva le porte dell’ovile ai senzatetto, che andavano a dormirci per farsi riscaldare dalla lana e dal fiato delle pecore. Faccio solo ciò che fecero le famiglie abitanti dall’altra parte della strada quand’ero bambino a Laon. Do di ritorno quello che ho ricevuto».
Stefano Lorenzetto


LORENZETTO Stefano. 57 anni, veronese. È stato vicedirettore vicario del Giornale, collaboratore del Corriere della sera e autore di Internet café per la Rai. Scrive per Il Giornale, Panorama e Monsieur. Ultimo libro: Hic sunt leones (Marsilio).


LORENZETTO Stefano. 57 anni, veronese. Prima assunzione a L’Arena nel ’75. È stato vicedirettore vicario di Vittorio Feltri al Giornale, collaboratore del Corriere della sera e autore di Internet café per la Rai. Scrive per Il Giornale, Panorama e Monsieur. Tredici libri: La versione di Tosi e Hic sunt leones i più recenti. Ha vinto i premi Estense e Saint-Vincent di giornalismo. Le sue sterminate interviste l’hanno fatto entrare nel Guinness world records.