Roberto Toscano, La Stampa 23/11/2013, 23 novembre 2013
LA FRATTURA CHE SI ALLARGA NELL’ISLAM
Non vi è dubbio che l’Islam sia oggi percepito in Occidente in chiave di minacciosa conflittualità, e – per alcuni - addirittura di sfida globale alla pari di quella che per gran parte del secolo scorso era costituita dal comunismo sovietico. Vi sono molte semplificazioni in questa tesi, soprattutto in quanto essa presuppone, arbitrariamente, l’esistenza di un Islam non solo unificato, ma compatto sulle posizioni più militanti.
La realtà è ben diversa, non solo perché – dal Marocco alle Filippine – vediamo una grande varietà di modi di essere musulmani (a seconda della storia di ciascun popolo, delle particolarità culturali, delle appartenenze etniche) ma anche perché esistono, oltre alle differenze, vere e proprie fratture, di cui la più importante è la contrapposizione sunniti-sciiti.
E’ una contrapposizione che ricorda, nella sua radicalità e ricorrente carica di violenza, quella che è esistita per secoli fra il ramo cattolico e quello protestante della cristianità. Lo scontro fra queste due diverse interpretazioni del messaggio cristiano aveva in origine radici dottrinali, teologiche, anche se ben presto si intrecciò con dimensioni politiche, dinastiche, territoriali. Nel caso dell’Islam, una religione della «ortoprassi» piuttosto che della «ortodossia», la spaccatura fu fin dall’inizio determinata non da divergenze teologiche, ma da una questione di potere: quella della successione a Maometto, che gli sciiti volevano per discendenza familiare e i sunniti secondo i tradizionali meccanismi tribali di selezione dei capi.
Per secoli, e con poche eccezioni, gli sciiti sono stati non solo numericamente minoritari, ma anche perseguitati e oppressi dalla maggioranza sunnita, socialmente svantaggiati e discriminati, i perpetui sconfitti. La loro identità religiosa, e prima ancora culturale, è basata appunto su una sconfitta (la battaglia di Karbala, mitica per gli sciiti come per i serbi lo è un’altra sconfitta, quella della battaglia di Kossovo Polje), sul rifiuto dell’ingiustizia e la contrapposizione al potere. I sunniti da parte loro hanno sempre dato per scontato di essere detentori dell’ortodossia islamica contro l’eresia della religione sciita, considerata deviante per la sua fondamentale ispirazione messianica (l’attesa del ritorno del Dodicesimo Imam), la presenza, ignota al sunnismo, di un clero strutturato gerarchicamente e il culto per una varietà di santi e martiri che dall’ortodossia sunnita viene considerato una deviazione dal rigoroso monoteismo dell’Islam.
La rivoluzione khomeinista del 1979 ha riportato la contrapposizione fra sciiti e sunniti alla sua prima, e primaria, radice politica. Una rivoluzione certo, ma anche un ritorno, dopo la parentesi laica e «occidentalizzante» della dinastia Pahlevi, allo sciismo come religione di Stato introdotta in Persia nel Cinquecento dalla dinastia safavide.
Lo «sciismo al potere» – e per di più nella Persia, un Paese di cui gli arabi hanno storicamente temuto le costanti pulsioni egemoniche – ha da allora costituito una sorta di scandalo, un’anomalia che a distanza di oltre trent’anni i sunniti, e in primo luogo l’Arabia Saudita, continuano a ritenere inaccettabile.
Ma cosa spiega oggi la recrudescenza di questa contrapposizione che si sta riproducendo con estrema violenza dal Libano al Pakistan?
Il punto di rottura è stata la caduta, nel 2003, di Saddam Hussein e l’instaurazione di un governo sciita a Baghdad. Se infatti lo spegnersi della spinta rivoluzionaria dell’Iran khomeinista aveva aperto una possibilità di «modus vivendi» con il mondo sunnita, e in primo luogo i sauditi, è stata la «perdita dell’Iraq» che ha fatto scattare una sorta di allarme rosso.
Non si tratta di religione, certo. Quello di Saddam era un regime sostanzialmente laico, ma era visto come un baluardo contro l’Iran, che il dittatore iracheno aveva anche cercato di sconfiggere nella lunga guerra degli Anni 80.
Che i sauditi non abbiano mai accettato che in Iraq ci fosse un governo che rappresentava la maggioranza sciita del Paese viene dimostrato dal fatto che non abbiano mai aperto un’ambasciata a Baghdad. La democrazia non è certo un criterio. Per i sauditi, sia si tratti dell’Iraq che del Bahrein, il fatto che gli sciiti siano una maggioranza non implica che sia accettabile che governino.
E’ importante sottolineare che lo scontro sunniti-sciiti, pur non essendo certo unilaterale, è oggi doppiamente asimmetrico. Da un lato infatti è l’Arabia Saudita ad essere palesemente all’attacco, con il sostegno ai gruppi sunniti più radicali, dagli jihadisti che cercano di rovesciare Assad ai Talibani (e l’ostilità invece agli islamisti sunniti più moderati, come i Fratelli Musulmani in Egitto), mentre l’Iran si accontenta oggi di difendere uno status quo che ha come punti fondamentali, oltre al governo Maliki in Iraq, la Siria di Assad e Hezbollah in Libano. Dall’altro va detto che, a differenza della rivendicazione saudita della leadership del sunnismo, la dimensione sciita è tutt’altro che centrale nella strategia dell’Iran, che punta invece su alleanze che non hanno necessariamente a che vedere con le affinità religiose: Assad è un dittatore laico e gli alawiti sono una setta solo lontanamente collegata allo sciismo; Teheran appoggia Hezbollah, sciita, ma anche Hamas, sunnita. Per i sauditi, a differenza dagli iraniani, è il radicalismo religioso ad essere veicolo e strumento ideologico di una strategia politica – e geopolitica.
La lotta è sempre più senza esclusione di colpi, e minaccia in particolare di estendersi dalla Siria al Libano.
Gli iraniani, lasciandosi andare ad un riflesso condizionato o piuttosto ad uno scontato intento propagandistico, hanno accusato Israele di essere dietro all’attentato alla loro ambasciata a Beirut, ma gli osservatori più attenti ritengono che la pista porti in un’altra direzione, quella dei servizi sauditi.
Certo, quello che è clamoroso è che, in questa fase in cui l’Iran cerca di percorrere la via diplomatica per superare un isolamento ormai insostenibile sia politicamente che economicamente, i sauditi si trovino ormai in totale sintonia con Israele, anche nella violenta irritazione nei confronti di Washington, da loro accusata di eccessiva disponibilità nei confronti di Teheran.
In realtà quello che traspare, nelle posizioni saudite, è un’insicurezza di fondo causata non solo dalle incertezze dell’alleato americano, ma anche dalle prospettive in campo energetico (l’avvicinarsi degli Stati Uniti all’autosufficienza energetica avrà di certo una pesante ripercussione, e non solo di natura economica, su Riad) e anche da equilibri interni che sarebbe difficile ritenere immutabili, soprattutto per il fattore generazionale e per una strisciante evoluzione culturale che mette sempre più in crisi il rigido controllo tradizionalista su politica e costumi.
Senza questa incertezza, la «minaccia persiana» potrebbe essere ridimensionata e gestita dai sauditi sulla base di una combinazione di dialogo e «containment» e di una diplomazia attiva ed agile che dovrebbe sostituire l’inquietante bandiera della leadership dell’Islam sunnita.
Sarebbe questa, assieme ad una per quanto graduale democratizzazione interna, la vera modernizzazione di un Paese che dovrebbe costruire il proprio futuro, invece di temerlo.