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 2013  novembre 22 Venerdì calendario

A mangiare dai Santini

Circa trent’anni fa, molto prima di iniziare a interessarmi di ristoranti con la scusa che fosse un lavoro oltre che un piacere privato, cominciai a sentir parlare con entusiasmo dei Santini. Erano un po’ delle mie zone, quantomeno di quelle elettive. Brescia e il lago di Garda, i luoghi da cui provengo, hanno infatti un’insignificante tradizione culinaria, fatta di spiedo di uccellini dal becco gentile (bottacci, allodole, fringuelli, pettirossi) e di poco altro. Una cucina rude, da cacciatori. Ma appena più giù, nella provincia di Mantova, sprofondando nel cuore umido di quella pianura Padana che sarebbe al centro di tutto ma in effetti è lontana da tutto e va percorsa per chilometri di nebbie e fossi e campi tutti uguali, c’è una spettacolare cultura culinaria, di carni e di pesci di fiume, di pasta sfoglia e dei suoi ripieni, di zucche e mostarde. Sarà l’eco dei gusti estetizzanti della corte dei Gonzaga. sarà l’abbondanza di materia prima sopraffina, fatto sta che in provincia di Mantova si è sempre mangiato bene. Ci si andava non per il festival della letteratura bensì per il cibo, scambiandosi indirizzi di trattorie, osterie, corti con cucina dove c’erano sempre madri e nonne intente a tirare la sfoglia di agnoli e tagliatelle, mentre lungo gli argini dei fiumi e nella sacca irrigua delle campagne si sfilettavano lucci e si arrostivano anguille, si farcivano capponi e si affettavano salami e cotechini, si frollavano fagiani e si impastavano dolci della domenica.
Ma i Santini sono un’altra cosa. I Santini sono quelli che hanno trasformato un’osteria – creata nel 1925 dal nonno pescatore e dalla nonna emigrante di ritorno (dal Brasile) – in un locale che dal 1990 è Relais Gourmand dei Relais & Chateaux, e dal 1996 ha tre stelle Michelin, ed è dunque il ristorante italiano che le detiene da più tempo. Se c’è una tradizione italiana di alta cucina, il Ristorante dal Pescatore è il luogo dove la troviamo incarnata. Volendo poi aggiungere un’ulteriore medaglia, secondo la classifica 2013 della celebre guida modernista World’s 50 Hest Restaurants, Nadia Santini è la migliore chef del mondo. Può sembrare una scemenza, la classifica delle donne cuoco, anche perché ci si chiede se in futuro bisognerà farne una dei transgender: la cucina non è una prestazione sportiva ma un gesto tecnico, culturale e anche artistico, e non si capisce perché il risultato vada differenziato in base ai sessi. Eppure... se il riconoscimento l’avessi vinto io, che detesto l’idea delle classifiche di genere, me lo terrei lo stesso e sarei orgogliosa di questa medaglia, perché sinora nei grandi ristoranti del mondo le donne sono poche decine, a meno di non volerle andare a cercare tra le lavapiatti e tra chi rigoverna dopo la chiusura. Torniamo ai Santini: ci sono i fondatori, il pescatore Antonio con la moglie Teresa. È il 1925. Nel 1927, i due hanno un figlio, Giovanni, che si appassiona a quel lavoro e lo prosegue con la moglie Bruna, che ancora oggi dà il suo contributo quotidiano. Nel 1953 nasce Antonio, che poi con la moglie Nadia imprimerà la svolta: con le loro ambizioni, i viaggi di studio in Francia, il "fare sistema" con altri grandi cuochi italiani (l’associazione Le Soste), porteranno la trattoria a diventare un grande ristorante conosciuto in tutto il mondo. E poi ci sono i loro figli: Giovanni, che dal 1996 ha affiancato Nadia in cucina, e Alberto, che gestisce la sala con il padre Antonio e con Valentina, moglie di Giovanni. Tutti questi nomi uguali, benché di generazioni diverse, servono a introdurre un discorso sull’alta cucina europea, che è fatta di due generi di ristoranti: quelli di varie generazioni di una stessa famiglia – sempre più rari –, e quelli con uno star chef.
Le differenze sono notevoli, spesso anche nel piatto. Lo star chef è un solista di solito ingaggiato da una grande compagnia di alberghi, oppure da una società di cui possiede una quota anche consistente. Gioca in una sorta di campionato in cui esistono ingaggi e sponsorizzazioni, e di solito fa parte della categoria degli innovativi e degli eccentrici: è uno specialista di quella cucina che la Guida Michelin definisce «creativa» e altri invece chiamano «modernista» o «tecno emozionale». La famiglia di ristoratori, invece, è radicata sul territorio. Il ristorante, che di rado è in città, gli appartiene; in cucina sono passate varie generazioni; in sala come patron, maître, sommelier e anche tappabuchi, ci sono mariti, mogli, figli, cognati che svolgono il proprio compito addestrati ai massimi livelli internazionali. Spesso, nella storia del locale, c’è stata un’evoluzione, sull’onda delle ambizioni di un figlio. Quasi sempre, così come la struttura della gestione è famigliare, lo è anche l’ispirazione della cucina. Questo significa che potete portarci anche vostra nonna per festeggiarla, perché apprezzerà e capirà cosa ha mangiato. Ma la disgregazione delle famiglie, la voglia di cambiare, l’insofferenza per la vita di provincia, fanno sì che questi ristoranti famigliari, che hanno costruito l’ossatura della grande cucina francese, alsaziana, in qualche caso spagnola e bavarese, nonché di quella italiana, siano ora sempre più rari.
Come mi ha detto Nadia Santini, «Io non sarei innamorata della vita se avessi fatto questa professione per il business. Quello che mi incanta non è più inventare, ma il passaggio di emozioni, consegnare a chi arriva nel nostro paese una storia e un gusto». Poi cita le Bucoliche e le Georgiche (siamo nella patria di Virgilio), «che hanno dato un colore, una musica, un sapore», e racconta di quando arrivano al Pescatore clienti stranieri che si rivelano mantovani expat, e si commuovono riscoprendo nei tortelli di zucca le proprie radici. Quando Nadia Santini dice che fa «una cucina umanistica», sostiene proprio questo. Lei e Giovanni sono alla continua ricerca dei punti di equilibrio tra tradizione e innovazione, con un occhio alla consistenza dietetica dei piatti (Giovanni è laureato in scienze e tecnologie alimentari). Modernizzano ma non inventano il contemporaneo, puntano alla profondità e si assumono anche un compito filologico, quello di ravvivare la grande cucina del passato, prima che tutti dimentichiamo cosa c’è alle spalle delle variazioni sul pesce crudo, del pane al seitan, degli hamburger gourmet, della fusion e della confusion di stili sapori e tecniche.
Ho fatto un’indagine tra amici gourmet ma non addetti ai lavori. Quale ristorante preferite in Italia? Tutti, ma proprio unti, mi hanno segnalato il Pescatore di Runate e Don Alfonso 1890 di Sant’Agata dei Due Golfi. Due dinastie della cucina, due locali molto belli, dove si assapora anche un’atmosfera di calore famigliare. È un po’ quello che succede con la narrativa: l’epopea, la saga, il buon romanzo di solida fattura sono sempre quelli preferiti dai cosiddetti lettori forti ma non dai critici letterari. Con questa certezza, ho passato una giornata con i Santini, nel loro ristorante, studiando i modi e le tecniche con cui propongono ai loro ospiti tre piatti cardine della tradizione culinaria della campagna padana: i tortelli ripieni di zucca, amaretti, mostarda e parmigiano reggiano, serviti al burro fuso; il petto d’anatra in salsa all’aceto balsamico tradizionale con mostarda di frutta; le meringhe alle mandorle con pistacchi o zabaione caldo al Marsala. Il Ristorante dal Pescatore è in provincia di Mantova, sul limite di quella di Cremona. Campi su campi. Ci si arriva passando da Canneto sull’Oglio, dove c’è un’impressionante concentrazione di vivai di piante a foglia caduca. È una campagna lavorata e noiosa, che nessuno collegherebbe mai alla fantasia sentimentale e languida con cui i Gonzaga riempirono di bellezze la loro città. Basti pensare al Palazzo Te, che ai tempi in cui venne costruito e affrescato da Giulio Romano era principalmente la dimora dei loro cavalli. Usciti da Canneto, si raggiunge Runate, una frazione di 30 abitanti nel mezzo della riserva naturale del Parco dell’Oglio Sud, che vi invito a vedere dall’alto con una mappa satellitare. Posti così infinitesimali te li immagini nel Midwest, e invece siamo a qualche decina di chilometri da autostrade, aeroporti, stazioni, industrie. Per i benestanti che vanno di fretta e vogliono saltare l’incomodo del viaggio in auto, i Santini hanno creato un’area di atterraggio alle spalle della loro acetaia, ricolma di botti di invecchiamento del balsamico. Non mancano un grande orto, una rappresentanza di anatre e oche, e un laghetto pieno di ninfee. La sala è tutta a vetrate e in qualsiasi stagione, anche quando non si mangia sotto il portico, si ha una sensazione concreta di contatto con l’eleganza fuori dal tempo dei giardini delle dimore di campagna, quelli dove ci si immagina leggere Balzac all’ombra di un cedro del Libano, pescando fichi da un cestino di vimini accanto alla sdraio. Bisognerebbe portarci il filosofo-urbanista Thierry Paquot, quello che ha coniato il mio motto esistenziale preferito: «Il lusso è tempo, spazio, silenzio».
A proposito di tempo: quanto ce ne vuole per servire un piatto di tortelli di zucca, che al Pescatore vengono non solo cucinati ma anche preparati al momento? Cronometro alla mano, per un tavolo da 6 passano 12 minuti dall’arrivo della comanda a quando i piatti sono pronti. Ecco come funziona: ogni mattina Giovanni prepara la pasta, sulla base della previsione di numero di clienti della giornata. Con 10 uova e 330 grammi di farina si produce sfoglia per 60/70 tortelli. In ogni piatto ne vanno 6. Quando arriva l’ordine, Giovanni prende la pasta dal frigo e la passa due o tre volte nella sfogliatrice, diminuendo ogni volta lo spessore (1 minuto). Taglia poi dei quadrati di circa 6 centimetri di lato, mette al centro un cilindro di ripieno, ripiega e comprime i bordi (6 secondi ciascuno). «I tortelli di zucca sono un piatto con diverse varianti, perché tipico di un’area abbastanza vasta, di circa 200 chilometri, da Ferrara a Cremona – spiega–. È un piatto rinascimentale, epoca in cui si valorizzavano equilibri di contrasti dolce-salato e la perfezione delle geometrie». Per il ripieno, Giovanni usa zucche da 4 o 5 chilogrammi della varietà americana. Alla polpa lessata aggiunge amaretti, mostarda d’anguria bianca, pangrattato, pepe, sale e chiodi di garofano. Infine il parmigiano. Per la cottura ci vogliono circa 5 minuti. I tortelli, scolati vengono poi serviti su una base di parmigiano reggiano grattugiato, e coperti con altro parmigiano su cui viene versato il burro fuso caldo. Secondo Nadia, «i tortelli di zucca sono il piatto della felicità. E poi, diciamocelo, quanti piatti si possono inventare? In Italia dove abbiamo il culto dei primi piatti, qualsiasi tipo di variazione deve scontrarsi col fatto che la pasta una volta cotta va condita in modo tempestivo. E deve arrivare calda, non scotta». Nel frattempo mi mostra il petto d’anatra che sta per cucinare. È già pepato e salato, e mentre le chiedo da che tipo di anatra provenga, non posso che pensare all’esilarante tormentone «Is the chicken local?», del serial Portlandia (cercatelo su youtube), parodia dei foodies americani, con le loro estenuanti indagini sull’origine dei piatti in menu. In questo caso, il petto proviene da un’anatra local di 2,5 chilogrammi, frollata per una settimana, e nutrita durante i suoi cinque mesi di vita a radicchio, anguria, insalata e cereali. Il petto viene adagiato (i verbi in cucina sono importanti, guai a dire un semplice «messo») dalla parte della pelle in un padellino col burro. Nei 4 o 5 minuti in cui rimane sul fuoco, il grasso fonde e protegge la carne. Poi lo si «lascia riposare» a parte, mentre nel padellino si aggiungono un rametto di rosmarino, del brandy e del vino bianco, che cuociono fino a far imbiondire il fondo grasso. Si filtra poi con un colino, e ne risulta una salsa morbida, deglassata, vagamente zuccherina. Nadia aggiunge un cucchiaino di aceto balsamico e lo fa restringere. Siamo all’impiattamento, parola orrenda che si sente continuamente in televisione e che per fortuna qui nessuno pronuncia (sono persone troppo per bene, questi Santini). Il petto d’anatra caldo viene affettato, messo nel piatto, coperto col fondo al balsamico. Accanto si pone un mazzetto di verbena, porro e maggiorana, del purè, e una chip di sedano rapa. Infine la mostarda di pere, mele e anguria bianca, che secondo Nadia ha la virtù di ridurre il tempo di digestione da 6 a 2 ore. E ora il dolce. Il più classico dei classici, ovviamente interpretato in versione alta cucina: meringhe alle mandorle con pistacchi e zabaione caldo al Marsala.
Giovanni dice che va preparato al massimo un’ora prima di essere consumato. Con 10 uova si ottengono circa 6 porzioni. Si montano uova e zucchero, poi si incorpora «la frazione liquida» (gergo tecnico), cioè vino bianco – in questo caso Lugana – e Marsala secco. Con queste aggiunte, il composto precedentemente montato si smonta, e infine va cotto per una decina di minuti a bagnomaria, finché sbuffa come la polenta. Nel frattempo si prepara una mousse leggera, fatta di panna montata e crema di pistacchi di Bronte, e la si passa in freezer per pochi minuti. Le meringhe, sfornate poco prima, vengono poggiate sulla mousse, coperte con fettine di mandorle tostate e decorate con spirali di gianduia. Tutt’intorno, lo zabaione.
Dopo aver assaggiato ogni singola cosa durante la preparazione, e aver gustato i piatti completati, sono tornata sino a Milano senza sentirmi stanca, indigesta, appesantita. E nemmeno sazia, quella detestabile sensazione che toglie ogni desiderio, ogni sogno di futuri assaggi, ogni proiezione di nuove esperienze culinarie. È bello rimanere con un rimpianto che è anche una promessa, un senso di occasione perduta per non aver assaggiato anche questo, e quello, e quell’altro ancora. È la differenza tra l’alta cucina e la gustosa cucina di un’eccellente trattoria. Ci vuole un nonnulla, un preparare con troppo anticipo e poi dover riscaldare, un aggiungere troppe spezie, un sovraccarico, per rendere sgradevoli i postumi di un’esperienza gastronomica. È il fascino dei petit riens della cucina, con le sue infinite declinazioni e possibilità. «Una volta Paul Bocuse mi ha detto: Nadia, ti spiego cos’è la cucina. Due amici, Asterix e Obelix, sono nel bosco durante un temporale. Un fulmine colpisce un cinghiale, arrostendolo. I due lo mangiano e alla fine del pasto dicono: Bravo il cuoco! Era nata la cucina». Cosa sono i Santini? L’evoluzione millenaria di quel fulmine.