Guido Vitiello, IL 12/2013, 22 novembre 2013
LA NEOLINGUA DELLA POLITICA ITALIANA
Il linguaggio del dibattito pubblico si è fatto più sudicio delle stalle di Augia, e non c’è Ercole che possa sobbarcarsi la fatica delle pulizie, tanto l’aria è appestata da parole vuote, sciocche, inutilmente astruse, truffaldine, approssimative o anche soltanto brutte. Ci sarebbe da far piazza pulita delle mille locuzioni stereotipate (la schiena dritta, il ditino alzato), delle parole svuotate da un uso inflazionistico (golpe, fascismo), degli accoppiamenti pregiudiziosi (liberismo selvaggio, garantismo peloso) e di una miriade di orridi neologismi già inventariati dai linguisti, sui quali sarà bello tacere. Ma queste non sono che le mosche, per restare nella metafora del mitologico letamaio. Perché a intasare le stalle nazionali sono parole ben più ingombranti, che infestano il linguaggio ma soprattutto il pensiero, e che generano senza tregua malintesi, equivoci, ambiguità.
Alcuni se ne servono con malizia, altri soggiacciono al loro incanto senza colpa. La confusione delle lingue, intanto, non fa che crescere. Nel 1799, a Venezia, il gesuita Ignazio Lorenzo Thjulen pubblicò il Nuovo vocabolario filosofico-democratico, un pamphlet satirico antigiacobino nel quale sosteneva che la Rivoluzione era stata più perniciosa del castigo di Babele, avendo confuso non solo le lingue ma anche le idee. La parte più consistente del suo dizionario si intitolava appunto Vocaboli che hanno mutato senso, significazione ed idea, ed era un primo esperimento di Newspeak orwelliano, dove ogni termine finiva per designare il suo contrario: «Molti popoli, ingannati da falsi vocaboli e mal intesi, hanno corso dietro a tutto ciò che in realtà detestavano». E anche se in Italia non c’è stata nessuna rivoluzione, fare un po’ di pulizia non guasta.
ANTIPOLITICA [‘antipo’litika] s.f. – Quando questo ceto politico finirà sepolto sotto il peso della sua insipienza, una parola sarà scolpita a lettere d’oro sulla lapide, accanto alle date di nascita e di morte: antipolitica. Non perché a travolgerlo saranno le mille cose affastellate sotto questa insegna, ma precisamente perché, si dirà, non seppe trovare nulla di meglio per etichettare il nemico e i suoi improbabili eserciti. Antipolitica, è appena il caso di dirlo, non significa niente. È parola inoppugnabilmente e incommensurabilmente stupida. Così stupida che perfino uno scrutatore di scie chimiche, un fustigatore del Bilderberg, un esperto di microchip sottopelle o di nanoparticelle annidate nelle merendine può svelarne agevolmente il trucco e convincersi, con qualche ragione, che il suo intelletto è superiore a quello del nemico. Antipolitica è un concentrato di ignaro masochismo, che tiene insieme in dodici lettere due autolesionismi convergenti: per un verso dà l’immagine strategicamente suicida di un sistema assediato che si arrocca ed erige bastioni; per altro offre il più ingenuo degli assist, una comoda “alzata” per lo schiacciatore più inetto. Che dirà: «Noi non siamo l’antipolitica, siamo contro questa politica inconcludente, corrotta ecc. Siamo per un’altra politica». A prova di scemo del villaggio. Frugate un po’ in rete, sarà facile constatare che questa obiezione l’hanno usata, con piccole variazioni, decine di candidati grillini. Perfino Antonio Ingroia – e a malincuore toccava dargli ragione. Abbiamo preso in giro Bersani per il suo «Lo smacchiamo»; ecco, l’etichetta antipolitica sarà ricordata come il «Lo smacchiamo» di un’intera Repubblica, con l’aggravante che non faceva ridere.
BENE COMUNE [‘bene ko’mune] s.m. – Non che la formula non abbia senso, per carità, è attestata fin dai tempi di Tommaso d’Aquino. Il problema, semmai, è che ne ha troppi, e che questi significati capricciosi sono fatti slittare continuamente l’uno sull’altro. Ermanno Vitale ha scritto un pamphlet impeccabile (quanto meno nella pars destruens) dal titolo Contro i beni comuni, dove ha provato a mettere un po’ d’ordine nel caos, ed è fatica erculea anche questa. Ribolle un po’ di tutto, in questo calderone ideologico: i vagheggiamenti di un inesistente Medioevo precapitalistico dove tutti condividevano le ricchezze della Terra, i filosofemi fanta-marxisti di Toni Negri e Michael Hardt, i miraggi di qualche modello esotico (la Bolivia di Evo Morales, il Chiapas del subcomandante Marcos), l’enfasi su alcune microsperimentazioni locali elevate a esempio generale, come il Teatro Valle occupato a Roma. Tutti i nodi vengono al pettine in un manifesto, Beni comuni del giurista Ugo Mattei, che Vitale smonta pezzo per pezzo, e dove rintraccia brani come questo, in puro stile Casaleggio Associati: «Si va imponendo sempre più una visione che vede Gaia come una comunità di comunità ecologiche, legate fra loro in una grande rete, un network di relazioni simbiotiche e mutualistiche, in cui ciascun individuo (umano o meno che sia) non può che esistere nel quadro di rapporti e relazioni diffusi, secondo modelli di reciprocità complessa». Umano o meno? Di certo c’è qualcosa di «umano, troppo umano» in alcuni usi del bene comune nel dibattito italiano. È una delle varianti di quella che Jean-François Revel chiamava la grande parade: la grande e variopinta sfilata, ma anche parata in senso calcistico, che ha consentito agli ex comunisti di aggirare con noncuranza il piccolo ostacolo del 1989. Rifoggiandosi, all’occasione, un’identità da benecomunisti. Ma il vero problema è che non si sa quali e quanti siano i beni comuni (l’acqua? la cultura? internet?), a chi siano comuni (alle città? alle piccole comunità? alle nazioni? all’umanità intera?) e, soprattutto, chi abbia titolo per decidere cosa è bene comune e cosa non lo è. E così può capitare che un gruppo di volenterosi occupi un antico teatro, lo proclami «bene comune» sottraendolo al comune (in senso amministrativo) e ne faccia l’uso che crede. Per imprese come questa, la vaghezza della formula è d’aiuto. Potremmo quindi uscirne così: bene comune è ciò che i depositari del marchio Bene Comune™ designano come tale. E se non lo è, lo occupano.
CASTA [‘kasta] s.f. – Il termine più popolare dell’ultima stagione nasce da un vistoso paradosso. Il libro di Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo aveva infatti per sottotitolo Così i politici italiani sono diventati intoccabili. E non occorreva certo aver studiato con Louis Dumont o avere nozioni avanzate di indologia per sapere che gli intoccabili, i paria, sono per l’appunto i fuori casta, il grado infimo della tradizionale gerarchia indiana. Aver risciacquato i panni nel Gange anziché in Arno ha avuto le sue conseguenze, e le sciagure originate dall’arcaismo di questo vocabolo non si contano. La più grave è l’averne eclissato un altro, meno accattivante ma più preciso: corporazione. E già, perché in Italia ci siamo liberati dei fasci ma non delle corporazioni: la parola casta era abbastanza vicina da farci sfiorare quella presa di coscienza indispensabile, ma abbastanza lontana da impedircela. E così sotto quella voce abbiamo chiamato a raccolta tutti i babau del risentimento nazionale: le lobby e le logge, le cricche e le parrocchie, i palazzi e i salotti, i quartierini e le massonerie. Riducendo a jacquerie plebea quella che poteva essere una rivoluzione liberale.
FATTO [‘fatto] s.m. – «Niente di più misterioso di un fatto, nulla che rassomigli di più a quei sogni reali che empivano di spavento i gran sacerdoti di Babilonia», diceva Paul Valéry, e ogni aspirante giornalista dovrebbe mandarlo a memoria. Da qualche tempo, tuttavia, questa parola dall’aria innocua è diventata strumento di mille raggiri ideologici, ricatti morali, illusioni ottiche spacciate per fotografie: e cosi si chiamano fatti i rottami – in sé muti e indecifrabili – di storie vaste e complicate, e una volta raccolti questi rottami tra le macerie li si venera come feticci o li si punta come selci primitive al petto dell’interlocutore, per metterlo a tacere: «È un fatto!». E invece è spesso un brandello di vita essiccata, tagliato secondo le convenienze, o un’opinione corazzata in un esoscheletro di dati che nasconde così la sua natura. Ma il fatto, quanto più è adorno di numeri e di verbali e di virgolettati, tanto più affascina e impietrisce. Come un basilisco. L’unico modo per ucciderlo è metterlo allo specchio.
LEGALITÀ [legali‘ta] s.f. inv. – Sulle brutture della lingua giudiziaria si dovrebbe compilare un dizionario a parte, e sarebbe una gran pena. Come spiegheremo ai nostri figli che a un certo punto si cominciarono a chiamare «prescritti» non già i reati ma gli imputati, marchiandoli a vita? Ma esempi come questo non sono che mosche, che ronzano intorno a parole più ingombranti. Legalità è una di esse. In sé è una bellissima parola, e il principio di legalità stabilisce che i poteri pubblici e i cittadini devono agire entro i limiti della legge. Ma l’accezione (e l’intenzione) con cui la si fa circolare è spesso un’altra, creando aggregati insidiosi come “cultura della legalità” (formula dai contorni piuttosto confusi, su cui prospera tutta un’antimafia khomeinista) o “controllo di legalità”, l’idea bizzarra molto cara alla corporazione togata – che i magistrati siano non già applicatori della legge ma guardiani del gregge, preposti a vegliare perpetuamente sulla nazione. Capita così che un Gian Carlo Caselli chiami «assalti alla legalità» quelli che, tutt’al più, sono assalti a Gian Carlo Caselli. Occorre quindi affinare l’udito quando si sente inneggiare alla legalità: sembrano appelli al rispetto dignitoso della legge, e sono appelli al rispetto servile e acclamante della magistratura inquirente. Le due cose, come direbbe il santo tibetano Milarepa, «paiono uguali, ma sta attento a non confondere».
MORALISMO [mora‘lizmo] s.m. – È la tipica parola-pappagallo di Valéry, che vola di becco in becco. Il dizionario Treccani ne dà due accezioni: tendenza a dare prevalente o esclusiva importanza a considerazioni morali, spesso astratte e preconcette, nel giudizio su persone e fatti della vita; dottrina che considera la norma morale prioritaria rispetto a ogni altro valore e interesse umano. Chi abbia in testa i moralisti classici come La Rochefoucauld e La Bruyère, poi, penserà a gentiluomini molto slegati dalle cure e dalle contingenze terrene, quasi esiliati in vita. Ora, pensiamo a come lo strano bipolarismo italiano ha sconciato questa parola fino a renderla inservibile. Gli uni (sono quelli del “ditino alzato”) la mettono in ridicolo, dando di moralista a chiunque abbia a eccepire su cose che con la morale c’entrano fino a un certo punto; gli altri la brandiscono come una clava contro l’avversario politico (e sono quelli della “schiena dritta”). Con l’effetto di ottenere non già la moralizzazione della politica, ma la politicizzazione della morale. Non era proprio l’idea di La Bruyère.
NARRAZIONE [narra‘tsjone] s.f. – La mamma chiede al bimbo accucciato sul vasino: «Stai facendo la cacca?». «No: la narrazione del mio defecare». Con la vignetta di Altan si potrebbe chiudere la partita, e farla finita con quest’altro assillo ventennale. Che si è esteso anche alle più inenarrabili regioni dell’agire e dello scibile umano. Tutto diventa storia e affabulazione, tutto è presentato sotto forma di racconto. A quanto pare, abbiamo dovuto scontare il crollo dei grands récits novecenteschi con la disseminazione imperialistica della forma-narrazione. E non è certo il solo Nichi Vendola a farsene megafono, e neppure il collettivo di scrittori Wu Ming, ideatori di una sorta di versione a fumetti del «mito politico» di Georges Sorel. Ormai senti parlare indifferentemente, e come se davvero significasse qualcosa, di narrazione del territorio (vedi sotto), di narrazione del capitalismo, di narrazione del Pd, di narrazione del femminile. È il pendant del feticismo del fatto. Se quello rendeva tutto fossile, qui ogni cosa si fa fluida. Capovolgendo il motto del Parsifal: lo spazio qui diventa tempo, ed è tutto uno scorrere di storie, come fiumi in cerca di uno sbocco. Dove sfoceranno? Ecco, ci sono anche libri che si dedicano alla «narrazione del cibo». C’è da supporre che, superata la narrazione della digestione, il tutto finisca più o meno come la vignetta di Altan.
PANCIA [‘pant∫ a] s.f. –Parlare con la pancia è affare da ventriloqui, ascoltare la pancia è invece uno dei segnali del beato rincoglionimento dei futuri papà («Lo senti? Scalcia!»). Pare però che certi politici sappiano parlare alla pancia del Paese, e che questo sia un vantaggio ma anche, tutto sommato, una cosa piuttosto ignobile. Ora, tutto sta a svelare i sottintesi e le implicazioni dell’antropomorfismo. A occhio e croce, la pancia del Paese dovrebbe trovarsi all’altezza del basso Lazio, ma non è questo che intendono. «B. è la pancia del Paese che parla» (Beppe Severgnini); «Grillo [...] fa leva sulla pancia del Paese» (Andrea Scanzi); «La pancia del Paese guarda alla tasca» (questa, più barocca, è di Bruno Vespa). Ricreiamo, a partire da queste indicazioni, un modellino anatomico: c’è una testa del Paese (le élite colte che votano secondo valori e princìpi), c’è un cuore fatto di militanti appassionati (che palpitano per quei medesimi valori e princìpi), e infine c’è la pancia. Luogo di umori guasti e di riflussi, di spiriti animali e di rancori atavici, di meschinità e di calcolo, di avidità e di pericolosi rigurgiti. Ne consegue che le elezioni non sono lo scontro tra diversi modi di usare la testa, ma tra una testa e una pancia; e, in subordine, che gli interessi sono una cosa turpe e non già una delle materie prime della democrazia. Due conclusioni indegne di una testa pensante.
TERRITORIO [terri‘torjo] s.f – «Buongiorno, siamo una piccola realtà operante sul territorio». Superato il fastidio per questo gergo indigesto come un comunicato delle Br, verrebbe da rispondere: e chi non lo è? A rigore, anche il mio aspirapolvere, il mio alluce e il mio criceto ricadono nella categoria “piccole realtà operanti sul territorio”. Tutto ciò che soggiace alla legge di gravitazione è una realtà operante sul territorio. Che cos’è, dunque, il territorio, negli usi non tautologici? Lo si può considerare l’equivalente verbale di una zavorra, una parola che serve a fornire un’impressione di ancoraggio alle iniziative più aleatorie e volatili. Territorio o un bell’esemplare di quelli che potremmo chiamare i lemmi del “falso radicamento”, come rete (e popolo della), movimenti, associazionismo. Sono enti di fantasia che servono a stabilire un legame di tipo magico con la realtà. Meno generici, qualunquisti e marchiani di “gente” o “popolo”, hanno però una funzione simile: danno l’illusione di avere alle spalle qualcosa di più che se stessi o i propri quattro gatti. Si disse che Stefano Rodotà era il presidente della Repubblica voluto dalla rete e dai movimenti. Lorella Zanardo annunciò con fierezza che la sua candidatura al Cda Rai era voluta «dalla rete e dai territori». Poi venne fuori che il primo poteva contare con certezza sui quattromila gatti delle Quirinarie, la seconda (forse) su quattrocento. Rete, movimenti e territori sono dunque termini zavorra. Ma di una zavorra è sempre bene liberarsi, tanto più che comincia per zeta e in qualche modo dobbiamo metter fine al glossario.