Lirio Abbate, l’Espresso 22/11/2013, 22 novembre 2013
L’IRA FUNESTA DI TOTO’ RIINA
In un angolo del cortile del carcere di Opera Totò Riina cammina avanti e indietro. Inveisce contro i magistrati, minacciandoli, critica e ironizza su Silvio Berlusconi, lancia frecciatine anche al suo vecchio amico Bernardo Provenzano. Sminuisce i processi in cui è imputato, evocando il falso pentito della strage di via D’Amelio. E rivendica per la prima volta di essere l’autore delle stragi di Falcone e Borsellino.
Ne ha per tutti il vecchio capo di Cosa nostra che ha appena compiuto 83 anni. Negli unici momenti d’aria concessi dal regime di massima sicurezza, ad ascoltarlo c’è solo un pugliese, affiliato alla Sacra corona unita, che fra cinque anni finirà di scontare la pena per associazione mafiosa e potrà tornare in libertà. Da alcuni mesi questo boss salentino raccoglie gli sfoghi del padrino corleonese, che con lui analizza le notizie apprese in tv e parla delle sue storie criminali.
Per vent’anni il capo dei capi è rimasto in isolamento o è stato in compagnia di detenuti reclusi per reati comuni, a volte extracomunitari che ignoravano chi fosse Totò Riina. Adesso si è trovato accanto un criminale che parla la sua stessa lingua e che tenta persino di tenergli testa, confrontandosi su chi ha fatto di peggio, anche se in questi dibattiti il padrino ha sempre la meglio. Entrambi parlano a ruota libera: commentano fatti di attualità, notizie e personaggi che vedono in televisione o leggono sui giornali. A cominciare dall’ultimo processo in cui Riina è imputato a Palermo, quello sulla trattativa fra Stato e mafia.
IL DELIRIO DI TOTÒ. Il boss punta il dito contro i pm che lo accusano e sostiene che lo stanno processando perché «vogliono fare carriera» con giudizi che lui definisce «inesistenti» e il riferimento è al dibattimento che si svolge in Corte d’assise sulla trattativa. Sbraita Riina: rispolvera lo stile che incuteva terrore nei suoi picciotti e attacca il pm Nino Di Matteo: attacca il magistrato per il modo in cui lo guarda durante le udienze e per come, secondo lui, «si accanisce» nei suoi confronti. Il capo dei capi è inferocito: «Ma che vuole questo da me? Perché mi guarda?».
E poi non trattiene la minaccia più pesante: «A questo ci devo far fare la stessa fine degli altri». Questo a cui si riferisce è Di Matteo e gli «altri» di cui parla sono i giudici Falcone e Borsellino. In questo modo Riina per la prima volta ammette, senza sapere di essere ascoltato dagli investigatori, di essere l’autore delle stragi del 1992. E ne rivendica la "paternità" e le "atrocità". Si vanta con il pugliese che se fosse libero, farebbe fare ai pm che lo accusano la stessa fine: «Come quella di un tonno», sentenzia facendo ricorso all’immagine agghiacciante della mattanza e del magistrato ucciso dentro l’auto blindata.
Riina ha preso di mira Di Matteo: senza nominarlo, lo indica come il magistrato «che si dà un gran da fare» e che «a Caltanissetta ha creduto» al falso pentito sulla strage di Borsellino. Alla sua maniera, il boss tenta di smontare il processo sulla trattativa Stato-mafia: «Ci mise un morto che non ci entra per niente», dice Riina facendo riferimento all’omicidio del politico democristiano Salvo Lima.
«Il morto lo ha messo (il pm Di Matteo ndr) per portarci tutti davanti alla Corte d’assise, per aumentare le pene» e secondo il padrino quando il livello processuale ha iniziato ad alzarsi «"quello" si è subito buttato malato». Il riferimento è a Bernardo Provenzano che era imputato ma il gip ne ha stralciato la posizione perché malato: ora è fuori da questo dibattimento. E Riina sembra non aver gradito questa scelta processuale del suo amico corleonese, le cui condizioni di salute sono peggiorate.
A BERLUSCONI NIENTE CARCERE. Nella sua analisi quotidiana delle notizie di tv e giornali, Riina non si lascia scappare l’occasione per ironizzare sulla condanna definitiva inflitta a Silvio Berlusconi, una sentenza che avrebbe dovuto far finire il Cavaliere in carcere. «E invece no» dice Riina, «a quello (Berlusconi ndr) carcere non gliene fanno fare». «Ci vuole solo che gli concedono la grazia...» aggiunge il capo dei capi. E giù commenti di ogni tipo fra il corleonese e il pugliese nei confronti del Cavaliere.
L’obiettivo per Riina resta però Di Matteo: lui e i magistrati sono i suoi nemici. Le frasi registrate dagli investigatori appaiono come minacce di morte per il pm. La protezione è stata aumentata per tutti i magistrati. Nino Di Matteo intervistato dal Tg2 afferma che «tocca ai pm dell’antimafia chiarire cosa c’è dietro alle parole di Riina». Mentre il procuratore di Palermo, Francesco Messineo, dichiara: «Ammesso che siano vere, queste minacce sembrano una chiamata alle armi che Riina fa al popolo di Cosa nostra contro i magistrati che rappresentano l’accusa nel processo sulla trattativa Stato-mafia».
CHIAMATA ALLE ARMI? Inquirenti e investigatori che hanno letto e riletto le trascrizioni delle conversazioni sostengono che il padrino corleonese «non fa alcuna chiamata alle armi». È evidente l’antipatia di Riina per il magistrato, al quale si sono stretti solidali tutti i colleghi e migliaia di cittadini, ma negli ambienti giudiziari fanno trapelare che «non vi è alcuna progettualità criminale in quello che dice Riina». Altri invece temono che Cosa nostra torni ad alzare il tiro.
Ma anche su questa ipotesi le interpretazioni sono contrastanti. Durante alcuni colloqui in carcere con i suoi familiari, il padrino nei mesi scorsi ha ripetuto: «Se fossi fuori in questo momento saprei come fare per aggiustare le cose. Non ce ne sarebbe per nessuno». Affermazioni che potrebbero testimoniare una crisi profonda nel suo potere: Riina non avrebbe più uomini su cui contare all’esterno del carcere. Un generale senza esercito?
«La mafia continua ad evolversi, cambia pelle. A Palermo sembra che manchi ancora un capo carismatico. Se invece esiste un nuovo leader, la procura distrettuale antimafia non lo ha ancora scoperto. Ed è difficile che lo potrà fare, perché molti pm non portano avanti una strategia di contrasto alla criminalità organizzata, l’individuazione di nuovi referenti politici e istituzionali di cui Cosa nostra si è sempre servita», chiosa una fonte di cui l’Espresso vuole mantenere l’anonimato.
GIOVANI BOSS CRESCONO. Una nuova Cosa nostra potrebbe nascere presto dal vivaio di giovani che stanno crescendo "a pane e mafia". Sono rampolli di famiglie importanti di Cosa nostra, portano cognomi illustri della storia criminale siciliana e oggi stanno seguendo regole e comportamenti che rispecchiano le vecchie tradizioni.
Questi padrini in erba vivono a stretto contatto, si riuniscono fra loro senza far partecipare estranei al gruppo e discutono di problemi giudiziari. Sono fedeli ai codici antichi: non partecipano a feste o scorribande, vanno a letto la sera presto e appaiono impeccabili. Così come lo erano una volta i loro nonni e i loro zii. Il loro atteggiamento ha insospettito gli investigatori che hanno avviato un monitoraggio sui "bravi ragazzi" che nulla hanno a che fare con Riina e che molte sorprese potrebbero riservare in futuro.
IL RITORNO DEI VETERANI. Una ventina di vecchi boss siciliani di grosso calibro hanno lasciato il carcere per aver scontato la pena e ora sono liberi. Sono diventati, grazie alla loro esperienza e al loro carisma criminale, il punto di riferimento di molti giovani mafiosi. A Palermo e provincia l’esercito di Cosa nostra, secondo un rapporto del Viminale, può contare su 2366 persone. Il mandamento più numeroso è San Lorenzo con 322 affiliati: il regno di Salvatore Biondino, uomo di fiducia di Riina, e di suo fratello Girolamo Biondino, scarcerato alcuni mesi fa.
E da pochi giorni è tornato libero un pezzo da novanta, il trafficante Aldo Madonia, fratello di Salvuccio killer e stragista. Con loro ha ottimi rapporti Matteo Messina Denaro, il latitante numero uno di Cosa nostra ritenuto il capo di Trapani. Hanno scontato la pena boss di Bagheria e di altri paesi della provincia: con loro anche Giuseppe Giuliano, detto Folonari per la somiglianza con uno dei protagonisti di Carosello, ritenuto dai pm un sicario del clan di Corso dei Mille, vicino agli stragisti Graviano, ma assolto sempre dall’accusa di omicidio.
Sono i veterani, arrestati nelle retate degli anni Novanta e ora di nuovo su piazza: hanno scontato detenzioni inferiori a venti anni o, in alcuni casi, scegliendo il rito alternativo e lo sconto di pena sono riusciti a cavarsela con dieci. È tornato libero con due anni di anticipo, dopo aver scontato oltre dieci, anche il boss-medico Giuseppe Guttadauro, il primario che i fratelli Graviano misero a capo del mandamento di Brancaccio.
A casa sua a Palermo venivano decise candidature elettorali, strategie politiche mafiose, estorsioni e affari illegali. Guttadauro si è trasferito a Roma dove trascorrerà l’ultimo dei due anni di pena come "sorvegliato speciale". È stato il boss in camice bianco a chiedere di vivere nella Capitale. E sempre a Roma ha deciso di risiedere dopo la scarcerazione Benedetto Graviano, il terzo fratello dei capimafia di Brancaccio.
UNA PROCURA LACERATA. Mentre la mafia continua a evolversi e mimetizzarsi la procura sembra non perseguire una strategia e «appare lacerata», così come sostiene il Csm. Di «laceranti divisioni che attraversano la procura palermitana» scrive il Consiglio superiore della magistratura nell’atto in cui la prima commissione ha chiesto e ottenuto di archiviare nei mesi scorsi la pratica di trasferimento nei confronti del capo dei pm Messineo.
Secondo il Csm il procuratore «avrebbe dovuto esercitare fino in fondo il proprio ruolo di capo per tenere unito l’ufficio, procurando di scongiurare personalismi, emarginazioni e contrapposizioni preconcette». «È probabilmente vero che la procura di Palermo abbia una nefasta tradizione di divisioni tra colleghi che non hanno base né in questioni ideologiche né in questioni correntizie, ma esclusivamente in questioni personali e in questioni di simpatie e antipatie professionali che purtroppo hanno a che fare con una cosa molto seria che sono le stragi del ’92»,scrive il Csm.
Nelle conclusioni l’organo di autogoverno dei magistrati sottolinea che gli elementi raccolti portano a descrivere «una importante procura percorsa da forti contrasti, da reciproche diffidenze e da mai sopite polemiche, che di certo ne appannano l’immagine, quando non rischiano di pregiudicarne l’operato».
LA CORSA ALLA POLTRONA. A luglio scadranno gli otto anni di permanenza di Francesco Messineo sulla poltrona di procuratore e il Csm ha già aperto il bando per la successione. Per Palermo sono disponibili Sergio Lari, capo della Dda di Caltanissetta e Guido Lo Forte, procuratore della Repubblica a Messina. Entrambi in passato hanno lavorato spalla a spalla come aggiunti a Palermo. A loro si potrebbe aggiungere anche Roberto Scarpinato. I giochi sono aperti e potrebbero riservare sorprese.