Giovanni Pacchiano, Sette 22/11/2013, 22 novembre 2013
LA VILLA DOVE LE VITE VISSUTE DIVENTANO LIBRI
LA VILLA DOVE LE VITE VISSUTE DIVENTANO LIBRI–
«Chi ha due case perde il senno», così recita il proverbio che Eric Rohmer inserisce in testa al suo film Le notti della luna piena. Ha due case, anzi, due ville, due antiche magnifiche ville Camilla Salvago Raggi, ma è tutt’altro che fuori di senno questa signora di 89 anni, lucida ed elegante e scattante e per niente vecchia nell’aspetto. In barba al tempo, eccellente scrittrice in piena attività: quest’anno sono usciti addirittura due suoi libri. Il primo, Lettere verdi. Carteggio di Camilla Salvago Raggi e Beatrice Solinas Donghi, 1938-1940 (Fondazione Giorgio e Lilli Devoto, Genova; pp. 72, euro 12,00), riporta il remoto epistolario di due amiche per la pelle, adolescenti precoci e future scrittrici, che dissertano con incredibile sapienza e con molta passione di libri appena letti in originale, inglesi e americani soprattutto, libri per ragazzine ma non solo, si cimentano in prime prove letterarie, deliziosamente ingenue, e parlano, come tutte le ragazzette di una volta, di amori platonici destinati a sciogliersi in fretta. Il secondo, Fuoco nemico (Il Canneto Editore, Genova; pp. 100, euro 8,00), in questi giorni in libreria, è un puntuto divertissement sulla mania delle ricette di cucina dilaganti in tivù e sui giornali: scritto da una che per sua stessa ammissione non sa cuocere nemmeno un uovo sodo e considera il fornello un autentico avversario, eppure da ricette e da apparizioni televisive culinarie è irresistibilmente attratta.
In realtà Fuoco nemico, secondo un processo associativo tipico dell’autrice, ci riporta ben presto dal cibo, attraverso il tema dei vecchi cucinoni come luogo fisico delle due grandi ville, e delle donne che ci lavoravano – molto in stile Gosford Park e Downton Abbey – al leitmotiv, affascinante, e da sempre centrale nella narrativa di Camilla, delle magioni avite, che un tempo fra ville e case e cascine erano ben più di due («i nobili dalla r moscia dicono “vivo di rendita”, io invece dico “vivo di vendita”», esclama sorridendo), oltre che della storia degli antenati.
L’ispirazione letteraria. La complessa e a volte avventurosa vicenda del suo casato, che la marchesa Camilla ha passato tutta la vita a ricostruire frugando fra montagne di carte familiari e che ha fatto rivivere in alcuni fra i romanzi di memoria più belli della nostra narrativa fine Novecento, a suo tempo molto apprezzati, oggi, nell’epoca dell’attimo fuggente, purtroppo e ingiustamente un po’ caduti nell’oblio: specialmente L’ultimo sole sul prato (Longanesi, Milano, 1982; ristampato da De Ferrari, Genova, 1998) e Il noce di Cavour (Longanesi, Milano, 1988). Libri da poltrona e caminetto deliziosamente confortanti. Ed è dunque nel giardino di Campale, l’imponente villa sulle colline vicino a Ovada, restaurata da un’energica zia Felicina in stile chalet svizzero verso la metà dell’Ottocento, e stabilmente abitata dalla scrittrice dai primi Anni Cinquanta, e dal 1960 assieme al marito, lo scrittore Marcello Venturi (1925-2008), che, seduti al sole di un pomeriggio di settembre, Camilla comincia a raccontare.
All’inizio c’era Badia di Tiglieto, in una conca nascosta alla vista nell’alta valle dell’Orba, entroterra ligure. «Edificata nientemeno che nel 1121: un’abbazia fondata dai monaci cistercensi che vi restarono fino al XV secolo, finendo poi col lasciarla per una serie di scandali in cui furono coinvolti. Nel XVII secolo papa Innocenzo X la diede in enfiteusi perpetua a un mio antenato, il cardinale Raggi, e da lui, di generazione in generazione, è arrivata sino a me. In realtà con il nome di Badia si indicava un territorio vastissimo, che andava da sopra Varazze, cioè dal mare, attraverso l’Appennino Ligure sino a Sassello e alla provincia di Alessandria. Sono tornati nel Duemila, i monaci, a cui ho lasciato una parte dell’edificio, chiesa ovviamente annessa, restaurata secondo lo stile romanico originale». Chiesa di linee severe e strepitosa suggestione. «Poi», continua Camilla, «se ne sono andati temporaneamente, nel 2012, perché erano troppo pochi, ma si spera che tornino presto. Un tempo, fino agli Anni Trenta, Badia era anche un paese attorno all’abbazia, con più di 400 persone e fiorenti attività agricole: lì, nel 1882, il bisnonno Paris, già deputato cattolico liberale a Firenze, organizzò un corso di scuola elementare serale per i figli dei contadini. Fungevano da maestri lui e il figlio Giuseppe (mio nonno) di 16 anni. “Mandate i figli a scuola!”, diceva Paris. “Fateli studiare”. Era un aristocratico illuminato. Oggi, a parte me e qualche amica nella villeggiatura di agosto, ci abita stabilmente solo una coppia con uno zio. Mentre Campale che, più giù, distava due ore a piedi, era soltanto la grangia di Badia».
A Pechino, a Pechino! Oggi Campale è un affascinante labirinto di stanze, con un enorme salone con biliardo dal soffitto altissimo e dalle pareti ricoperte di quadri e di libri. Libri e riviste d’epoca che ci riportano a un protagonista come il nonno Giuseppe Salvago Raggi (1866-1946). «Lo conobbi quando, diventato mio tutore, era sulla settantina: il mio papà, anche lui Paris, morto precocemente nel 1936, mi aveva avuto da una separata di fatto e non nobile: per il nonno una colpa. Era molto alto, diritto, radi capelli bianchi e sopracciglia cespugliose, vestito d’inverno di grisaglia, con panciotto e cravattino a farfalla, d’estate di lino bianco». Un uomo autorevole, che incuteva soggezione a tutti ma non all’unica e adorata nipote, anche per le avventure da romanzo del suo passato. «Scelse la carriera diplomatica», narra Camilla, «e dapprima fu mandato in sedi importanti a fare l’apprendistato: Madrid, Pietroburgo, Berlino, Costantinopoli, Il Cairo. Nel 1897, a soli 31 anni, venne inviato a Pechino come incaricato d’affari e, dal 1899, come ministro plenipotenziario». Ha con sé la moglie Camilla Pallavicino, una nobile genovese più che bellissima (fan fede le foto), e il figlioletto Paris nato nel 1892. Pechino: polvere grigia dappertutto e piccoli caseggiati, anche quelli che ospitano le legazioni, cinti da bassi muretti, racconta Giuseppe Salvago Raggi nel suo libro postumo – una miniera di notizie – Ambasciatore del re. Memorie di un diplomatico dell’Italia liberale (Le Lettere, Firenze, 2011; pp. 386, 32,00 euro). Scoppia nell’estate del 1900 la rivolta dei boxer e le legazioni europee sono assediate e attaccate. Il ministro italiano si distingue per sprezzo del pericolo e tenacia, fermamente sorretto dalla moglie. Il cannoneggiamento fa morti e feriti, mancano i viveri. «Lentamente passavamo le tristi giornate, ci alzavamo stanchi dalla notte insonne, con lo stomaco vuoto, non si riusciva a togliersi l’appetito», scrive Camilla Pallavicino in un drammatico diario mai edito. Termina il 14 agosto l’assedio, arrivati i soccorsi delle nazioni europee. Camilla rientra in Italia in nave con il piccolo Paris, mentre Giuseppe, altra impresa fuori del comune, via terra, su un carro coperto, attraverso la Mongolia, fino alla Transiberiana.
È la nonna Camilla forse il personaggio più misterioso del casato. «Aveva la passione per la fotografia», racconta la nipote. «A Badia, munita di una Voigtländer a soffietto, batteva la campagna in cerca di soggetti. Ho raccolto in un piccolo libro le sue foto, soprattutto di contadini, i gruppi, i vendemmiatori, le processioni, i balli. Lei era una padrona altamente decorativa. Si faceva arrivare i vestiti persino da Parigi e si diceva che li indossasse “una sola volta”. Ha seguito poi in Eritrea il nonno, governatore dal 1907 al 1911, infine è subentrato un distacco crescente, disinteresse, estraneità. Era lei che tradiva lui, o lui che tradiva lei? Dopo il 1912, a 41 anni, la splendida donna va a Milano e non se ne sa più nulla se non che muore nel 1915 di idropisia». Peccato. Fruga ancora fra le carte, le dico, aspettiamo questa nuova storia!
Giovanni Pacchiano