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 2013  novembre 22 Venerdì calendario

UNA TRAVIATA ALLA PROVA DEL FUOCO, RIPENSANDO A QUELLA DI CALLAS

& VISCONTI. COSÌ IL PASSATO INSEGNA AL FUTURO–

Lo hanno celebrato in tutto il mondo, tanto, finanche tantissimo. Giuseppe Verdi in questo 2013 non è stato solo straeseguito ovunque – stimate oltre quattro migliaia di rappresentazioni di suoi titoli – ma anche sbandierato come risorgimentale voce dell’unità nazionale, senza poi dimenticare la contrapposizione al collega titano Wagner, anch’esso in odor di celebrazioni essendo coetaneo, per anno di nascita, del Cigno di Busseto. Benché burbero – lo dicono le cronache della sua epoca – Don Peppino avrebbe certo gradito questa gran kermesse di festeggiamenti per il bicentenario della sua nascita.
Un anno di esecuzioni nel mondo con focus su Traviata – un migliaio di recite circa –, tra le opere verdiane simbolo. Titolo scelto non certo a caso da Stéphane Lissner, sovrintendente uscente del Teatro alla Scala, come opera inaugurale della nuova stagione del teatro milanese il prossimo 7 dicembre con la direzione di Daniele Gatti. Decisione coraggiosa venne subito definita il giorno dell’annuncio. Traviata alla Scala da sempre, o meglio dal 1955, fa rima solo con Maria Callas. In realtà non è proprio così. Nel 1990 Riccardo Muti sfidò ogni fantasma presunto e malumori di inguaribili melo-vedovi callassiani, riportando nella sala del Piermarini l’opera (non si eseguiva da 26 anni): cast giovane e successo sterepitoso, replicato anche all’estero dove lo spettacolo – firmato da Liliana Cavani – venne portato dal Teatro in tournée. Certo è che la Traviata della Maria del 28 maggio 1955 con la regia di Luchino (Visconti) resta una pietra miliare. Per la direzione di Carlo Maria Giulini, per la lettura registica, per lo scavo drammaturgico fatto nota dopo nota, parola dopo parola, dal soprano greco. Va da sé che in queste settimane il ricordo torni prepotente. Non solo perché l’opera è in cartellone alla Scala, ma anche perché, pochi giorni prima dell’inaugurazione di Sant’Ambrogio, il 2 dicembre, ricorrerà il novantesimo anniversario dalla nascita della cantante greca. La ragione per cui la Traviata callassiano-viscontiana creò uno spartiacque con le esecuzioni precedenti, sta non solo nel fatto che fu uno spettacolo riuscitissimo. Ma anche perché rispondeva in toto ai dettami verdiani: l’opera come unicum osmosi tra musica e scena. Persino lo spostamento temporale agito da Visconti, ambientando la vicenda nella Parigi in odor di Belle Époque, risultò azzeccatissimo pur sconcertando il benpensante pubblico milanese: rimasta storica la scena in cui Violetta alla fine del primo atto attacca Sempre libera degg’io mentre lancia per aria le scarpe. «Lasciamo perdere confronti e fantasmi legati al mito Callas. Resta però il fatto che quello spettacolo aveva gli elementi giusti per andare incontro ai desiderata verdiani: musica, ambientazione, parola e gesto scenici devono dar vita a un tutt’uno», dice Emilio Sala, direttore scientifico dell’Istituto nazionale di studi verdiani di Parma. Devo tradurre che da allora non si sono fatti passi avanti nella “ripulitura” delle partiture verdiane, nella scelta di chiavi di lettura interpretative ma anche registiche vincenti? Citando Violetta: Addio, del passato bei sogni ridenti? «Vuol scherzare? Di passi avanti da allora se ne sono fatti e tanti. Ma siamo arrivati a un punto in cui bisogna rivedere i parametri dell’interpretazione verdiana musicale e registica. Questi hanno assunto contorni un po’ troppo sfocati». In un anno di esecuzioni di partiture del grande Peppino non è apparso nulla di nuovo o interessante e al contrario si è persa la padronanza del nostro melodramma? «Il problema di eventi celebrativi come questo bicentenario verdiano, sta nel fatto di offrire da un lato il fianco a dei ripensamenti ma dall’altro anche di inibirli». Chiarisca, prego. «Il bicentenario è caduto in un momento particolare. A partire dalla concomitanza con quello wagneriano che ha innescato contrapposizioni – a mio dire inutili – tra italianità e teutonicità. Senza dimenticare il fatto che le celebrazioni del 150esimo dell’unità italiana di poco precedenti, hanno premuto troppo l’acceleratore sull’equazione Verdi uguale a spirito risorgimentale, a italianità». Stop, un attimo. Nabucco e il coro Va, pensiero, lo slogan sabaudo W Verdi, la Trilogia popolare, Traviata in testa, tutto falso? «Non ho detto questo. Ma si tratta, a seconda dei casi, di etichette messe a Verdi in un momento successivo. Prenda solo l’espressione Trilogia popolare (si tratta della “triade” di titoli composta da Rigoletto, Trovatore e Traviata, andati in scena di seguito tra il 1851 e il 1853, ndr), è una cornice di comodo. Verdi mai pensò di scrivere le tre opere come lo sviluppo di un progetto unitario. Anzi per capirne il valore bisognerebbe leggerle tra il loro pre e post, tenendo presente il misconosciuto Stiffelio e, a seguire, Simon Boccanegra e Ballo in maschera».

Riletture lontane. Nulla di nuovo all’orizzonte quindi e anche un passo indietro? «Non dimentichi che il 2001 è stato l’anno verdiano: un secolo dalla morte. In un decennio cosa si poteva aggiungere di nuovo? Molto era già stato fatto nel lavoro filologico sulle partiture e sulla vocalità». Si riferisce a Riccardo Muti? «Un lavoro notevole. Specie nel ri-leggere le partiture del primo Verdi. E non solo quelle. Penso al suo Rigoletto». Non salva nemmeno l’equivalenza Verdi come simbolo di italianità nel mondo? «Rossini, Bellini, il belcanto o Puccini dove li mette? Anche loro sono “italianità”. Certo è vero, Verdi fa vibrare forse più di altri musicisti le corde emotive del pubblico. Ma l’italianità del melodramma oltreconfine è un concetto molto più articolato, che va storicizzato». Tocchiamo “il tasto” delle regie liriche in questo 2013 verdiano che, azzarderei, non ne esce certo bene fino a ora. «Le regie, specie quelle basate sul concetto tedesco di Regietheater, hanno avuto un ruolo molto forte in questa stagione. Verdi è stato messo in scena attraverso letture a volte lontane da quel concetto di drammaturgia a cui accennavo prima. Non sono soggetto a idiosincrasie pregiudiziali riguardo ai registi, ma l’impianto interpretativo in scena deve mantenere un rapporto con la drammaturgia musicale e del testo. Sempre. Ci sono artisti, penso a Bob Wilson, in grado di creare spettacoli visivamente eccellenti. A volte però lontani da ciò che c’è in partitura. In altri casi, come Robert Carsen, ecco letture visivamente anche molto forti, ma legate al testo musicale».

Uno storico allestimento. Passo indietro al capitolo vocalità. Asseriva che vi si è lavorato molto. «Forse più da appassionato che da studioso in passato sono stato folgorato dalla voce della Callas». Come darle torto... Come la definirebbe? «Un ossimoro. Proprio in Traviata ha saputo restituire alla vocalità di Violetta quella sua identità schizomorfa che ne fa un ruolo così difficile da affrontare. Sentendo la registrazione della Traviata callassiana mi è stato ancor più chiaro cosa intendesse Verdi nel parlare di drammaturgia scenica e musicale».
Con Traviata alla Scala il 7 dicembre, potremmo dire che cali il sipario su questo 2013 verdiano (ma anche wagneriano) un viatico per il post? «Negli anni, come detto, si è fatto un gran lavoro filologico sia sulle partiture sia sulla vocalità. Trovato un equilibrio tra volontà del compositore e prassi esecutiva dal vivo (l’esecuzione in teatro, specie in passato, spesso è risultata distante dalla partitura originaria, anche se poi questa a volte rispondeva e risponde a – quasi – legittime esigenze di pubblico e scena, ndr). Perché allora lasciare spazio a certe regie che sembrano voler tagliare programmaticamente il cordone ombelicale con ciò che la drammaturgia musicale richiederebbe solo per voler dire che si propone il nuovo? Il futuro sta nel ripensare a tutti questi elementi e trovare una formula capace di reinterpretarli senza tradirli. Seguendo questa strada, non solo Verdi ma il melodramma resteranno un vero patrimonio non della nostra italianità ma della nostra cultura». Elemento perfetto da esportare oltreconfine come una delle eccellenze italiche.
Della necessità di un juste milieu tra passato – la tradizione – e linguaggi nuovi – il futuro del nostro melodramma – è d’accordo anche Paolo Gavazzeni, direttore artistico della Fondazione Arena di Verona, palcoscenico, va ricordato, dove nel 1947 debuttò in Italia Maria Callas con Gioconda. «La stagione areniana è nata nel 1913 proprio per celebrare Verdi mettendo in scena all’aperto Aida», evidenzia Gavazzeni. «Quest’anno si è festeggiato il nostro centenario e sono state messe in cartellone due versioni dell’opera: una a firma di La Fura dels Baus, spettacolo controverso dai linguaggi contemporanei che però non tradivano la tradizione; l’altra, lo storico allestimento del 1913. Il nostro è stato un messaggio chiaro. Le linee ispiratrici del futuro del melodramma, da presentare durante le stagioni a noi coeve, non possono prescindere dalla conoscenza del passato. Ovvio, non parliamo di un mero ossequio a ciò che è stato, ma il tener presente elementi del nostro heritage per trovare formule che parlino al pubblico di oggi». Cosa ne pensa di queste celebrazioni dai tanti ripensamenti degli allestimenti verdiani? «A volte risultati un gioco inutile. L’opera lirica deve mantenere la sua matrice popolare, nel senso di dare emozioni al pubblico. Non può mai disattendere questo assioma solo perché bisogna sperimentare». Il melodramma e Verdi suo portavessillo spopolano ovunque. Se un duplice direttore musicale di provata esperienza come Antonio Pappano (Royal Opera House a Londra e Accademia Nazionale di Santa Cecilia a Roma) ha affermato in occasione della recente messa in scena londinese dell’edizione francese di Vespri siciliani da lui diretta: «Verdi è una sfida continua, ti fa avvertire sempre il bisogno di approfondire qualcosa. Un’esperienza magnifica che ti accompagna tutta la vita», significa che il mondo musicale verdiano rappresenta un cardine della cultura musicale nonché parte irrinunciabile del nostro dna. «Amo la sua italianità, il suo Verdi è incomparabile», ebbe a dire nel 2010 sul New York Times il celebre mezzo soprano Marilyn Horne assistendo al debutto di Riccardo Muti al Teatro Metropolitan di New York sul podio di Attila di Verdi. La cantante pose giustappunto l’accento sull’italianità. Quell’italianità che tuttora esportiamo con successo. Ma che è in lotta continua con i tagli sulla cultura da parte dello Stato. Follie! Follie! Delirio vano è questo, verrebbe da dire come Violetta. Traviata che andrà in scena il 7 dicembre alla Scala in odor di estrema sobrietà mondana ha registrato il tutto esaurito. Compresa la cosiddetta “Primina” del 4 dicembre, quella a 10 euro e dedicata agli under 30: il giorno di apertura delle prenotazioni on line ben 25 mila accessi. L’italianità di Verdi s’addice anche alle nuove generazioni.
Gianluca Bauzano