Lorenzo Viganò, Corriere della Sera 22/11/2013, 22 novembre 2013
SCERBANENCO, IL GIALLISTA SENSIBILE
[Cecilia Scerbanenco]
«Caro Del Buono, questo è il romanzo. È stato scritto con sacro furore e con sottile gioia. Mi sembra molto Scerbanenco, quello misconosciuto che tu conosci così bene. Spero che ti piaccia, che vada bene in ogni senso, raramente ho scritto con tanta convinzione, accanimento e diligenza, oltre tutto perché sapevo che avresti letto e deciso tu. Non ti spaventare del mio entusiasmo, forse sono un po’ ex cosacco e ormai sono lanciato, ma sto già pensando al secondo “nero” con lo stesso protagonista, e con un titolo che mi appassiona ma che non so se si può mettere: Americano e fesso . Scusami queste effusioni epistolari, ma sono poche le persone con le quali mi effondo così».
Con queste parole nel 1965 Giorgio Scerbanenco mandava a Oreste Del Buono, editor della Garzanti, il romanzo Venere privata , primo atto della quadrilogia di Duca Lamberti (il libro che ha dato il via, settimana scorsa, alla nuova iniziativa del «Corriere della Sera» dedicata ai gialli e neri dello scrittore di origine ucraina). Il secondo, cui l’autore sta «già pensando», uscirà invece come Traditori di tutti (in edicola da domani), nonostante il suo autore preferisse l’altro titolo e lo stesso Del Buono — cui si deve la pubblicazione di questa saga che aveva sullo sfondo, scrisse, «la più atroce, la più sconvolgente, la più affascinante Milano mai stata presentata in una serie di pagine» — avrebbe in seguito affermato che «forse era migliore».
«In queste righe c’è tutto mio padre, la sua sincerità, la sua schiettezza. Non usava giri di parole e si apriva totalmente agli altri», racconta oggi la figlia Cecilia, secondogenita nata dalla relazione di Scerbanenco con Nunzia Monanni, «l’amore della vita» che non potè mai diventare sua moglie in quanto lo scrittore, che si era sposato non ancora ventenne con Teresa Bandini, corista alla Scala, morì pochi mesi prima che in Italia entrasse in vigore il divorzio. «C’è tutta la sua dolcezza. Ho un ricordo bellissimo di lui anche se ho potuto godermelo poco, cinque anni appena».
Che tipo era suo padre?
«Una persona severa, ma in senso buono. Un padre di stampo tradizionale che ci voleva educate e ben vestite, ma che, a differenza di quello che accadeva in quegli anni, era molto presente: ci accompagnava all’asilo, sceglieva i nostri abiti e appena poteva ci portava con sé, anche alle cene di lavoro, facendoci sedere in un tavolino a parte. Era un uomo moderno e di grande sensibilità».
Chissà che fiabe vi raccontava…
«Non ce ne raccontava, anche se si potrebbe pensare, vista la sua fervida fantasia. A letto ci metteva la mamma. Come tutti i bambini di allora andavamo a dormire dopo Carosello, e mi ricordo ancora la luce accesa nel suo studio e il continuo ticchettio sulla macchina per scrivere».
Da anni sta lavorando alla sua biografia. Che cosa ha scoperto di lui che non sapeva?
«Da un punto di vista letterario che alcune caratteristiche dei romanzi di Duca Lamberti sono già presenti nei suoi scritti degli anni Trenta. L’interesse per i caratteri un po’ duri, alla Duca appunto, e soprattutto l’attenzione agli aspetti sociali e umani del crimine, per capire le ragioni che spingono una persona a uccidere. Lo affascinava l’aspetto medico, neurologico quasi, di questi individui, tant’è che in una lettera confessa che avrebbe voluto studiare medicina per poi dedicarsi alla psichiatria».
E dal punto di vista umano?
«Ho scoperto un uomo tormentato, che si poneva domande sul significato della vita e della società che lo circondava, cosa che ha certamente influito sulla sua scrittura. Un tormento interiore legato anche alla perdita della prima figlia di soli sei mesi nata dal suo matrimonio. Nel diario ho trovato riflessioni sulla morale, sull’etica, sul perché oltre a sentirci spinti a fare del bene sentiamo anche una pulsione verso il male. Ma era attento anche alle cose minime, dalle ragioni che portano una donna a scegliere un certo cappello al perché un uomo si siede in un determinato modo».
Da giornalista ha tenuto per molti anni una rubrica di lettere.
«Sì, quella che oggi chiameremmo la posta del cuore. Lettere tragiche, difficili, di ragazze perdute, in difficoltà, sedotte e abbandonate, di mogli cacciate di casa dai mariti che si innamoravano di un’altra, di giovani che perdevano la testa per uomini sposati. A tutte rispondeva entrando in forte empatia con loro, aprendosi a sua volta, raccontando di sé. Riusciva a capire le donne forse perché era cresciuto in una famiglia prevalentemente femminile, ricca di cugine».
Una conoscenza che gli è tornata utile nella scrittura dei romanzi rosa…
«Certamente. Tant’è che i suoi non sono rosa tradizionali, ma hanno sempre un risvolto sociale con protagoniste ispirate spesso alle sue lettrici».
Come lavorava Giorgio Scerbanenco?
«Ritagliava notizie dai giornali e quando gli veniva un’idea prendeva appunti rapidissimi su qualsiasi cosa trovasse: un tovagliolo di carta, un biglietto del tram, una busta. Poi, a casa, lo sviluppava. Se si trattava di un personaggio, ne metteva a punto il carattere, persino l’aspetto fisico. Per i romanzi stendeva invece una scaletta di una pagina e partiva. Pochissime correzioni, perché quando cominciava a scrivere aveva già in mente tutta la storia. Era veloce: cinque romanzi in un anno».
Quali passioni coltivava oltre alla scrittura?
«La lettura. Gli piacevano gli autori americani, William Faulkner in testa. E poi i libri di filosofia, di matematica e soprattutto di guerra, come Il giorno più lungo di Cornelius Ryan sullo sbarco in Normandia. Poca letteratura italiana».
Qual è secondo lei l’aspetto che continua ad affascinare sia i lettori che gli scrittori?
«La sua capacità di entrare nell’animo umano e indagarlo, di analizzare le ragioni che portano una persona a commettere un crimine. Tant’è vero che i suoi non sono gialli classici, che ruotano intorno a un enigma da risolvere, ma sono prima di tutto analisi sociali e comportamentali, caratteristica che ha reso la quadrilogia di Duca Lamberti amata dai criminologi. Si pensi a come mette a fuoco i sentimenti che animano il padre della vittima ne I milanesi ammazzano al sabato , il mio noir preferito, o ai vari caratteri al centro di Traditori di tutti . Una novità assoluta nella seconda metà degli anni Sessanta. Oggi abbiamo Csi, Criminal Minds e tanti altri, ma spesso le storie che raccontano sono improbabili, tirate via: quelle di mio padre, invece, affondavano le radici nella realtà, scavavano nell’esperienza umana. Più che indagini poliziesche erano indagini psicologiche».