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 2013  novembre 22 Venerdì calendario

“ORA LO SO, LEE NON UCCISE JFK” LA “VERITÀ” DELLA VEDOVA OSWALD 50 ANNI DOPO IL SANGUE DI DALLAS


«Adesso lo so, adesso ne sono sicura: mio marito Lee non ha ucciso Kennedy. Ho letto centinaia di libri, ho studiato, ho ripensato a quel che accadde e non ho più dubbi: è innocente»: Marina Nikolaevna Prusakova, poi Oswald e adesso Porter (dal suo secondo matrimonio) lo confessa ad uno dei suoi migliori amici, il documentarista Keya Morgan. Poi aggiunge: «Lui amava il presidente, l’ho visto piangere davanti alla tv quando morì Patrick: il figlio scomparso da neonato». Il regista è uno degli ultimi ad averla sentita in questi mesi, l’avvicinarsi del cinquantesimo anniversario è un peso troppo grande da sopportare: «Mi sento come una gobba con una pietra sulla schiena, questo senso di colpa mi tormenta: ho provato in tutti i modi a farmi accettare ma adesso sono stanca, sfinita, ancora una volta devo affrontare tutto questo», si sfoga lei al telefono.
Oggi non sarà a Dealey Plaza alla cerimonia ufficiale, dove pure l’hanno invitata. Non andrà in televisione, nemmeno dopo l’offerta di tre milioni di dollari. Resta chiusa nella sua casa di Rockwall a trenta minuti d’auto a sud di Dallas, dove vive dalla metà degli Anni Settanta con il nuovo marito, il tecnico elettronico Kenneth Porter. A 72 anni vuole solo essere una nonna serena, ma l’ombra lunga della storia torna ad agitare le sue notti: «Gli incubi, che ha sempre, ora si sono fatti più frequenti. L’avvicinarsi della data le danneggia la salute, ha un sindrome acuta da stress: esce pochissimo. Teme di avere il telefono sotto controllo ed ha di nuovo paura che qualcuno le possa far del male», spiega ancora Morgan. E poi aggiunge: «È una delle donne più intelligenti che conosco ed è molto sensibile».
Il rifugio assediato sta lungo uno stradone con case basse di pietra che si alternano a fattorie e a recinti con cavalli e mucche. Sul vialetto di ingresso tre cartelli sconsigliano l’avanzare: non oltrepassate, state alla larga. Un cane senza catena abbaia e corre nervoso incontro agli ospiti. Il telefono suona a lungo, poi scatta la segreteria telefonica: lasciate un messaggio. Nessuno vi richiamerà.
Dall’altra parte della via abita Jenny, sessant’anni e capelli biondi cotonati. Apre cauta, appena capisce allarga le braccia: «Sono venuti centinaia di giornalisti e curiosi. Certo che la conosco, è una brava persona, un’ottima vicina, non potremmo desiderare di meglio. Lasciatela in pace». E un’altra donna, qualche porta più in là, prova ad interpretare: «È una ferita che non guarisce da 50 anni e che torna a sanguinare come il primo giorno: per lei è un dolore insostenibile. Va capita».
Lei, Marina, da sempre lotta per scappare dal suo passato, che come su un tapis roulant la trascina ogni volta all’indietro. Il National Enquirer le dedica una lunga inchiesta, dove un’amica di famiglia, Shirley, racconta questo episodio: «Una volta suo figlio Mark, quello avuto con Ken, si è presentato a casa nostra per giocare con i nipoti, aveva un fucile. Io, senza volerlo, ho pensato a quanto accaduto a Dallas e l’ho sgridato. Lei non ci vedeva niente di male, ma comunque non ho più visto il ragazzo con un’arma». Qualche anno fa Marina lotta insieme a tutti gli altri della zona contro l’arrivo di un locale di scambisti. La grigliata per festeggiare la vittoria si fa nel suo giardino: lei è felice, finalmente sente di far parte di una comunità. Che adesso la protegge. Al Walmart dove va a fare la spesa fanno finta di non conoscerla. Solo una cassiera si lascia sfuggire: «La signora Oswald, ovvio che so chi è: viene spesso qui». Poi arriva la direzione del supermercato che vieta le interviste e lei si corregge: «No, guarda mi sa che mi sono sbagliata, l’ho vista sui giornali».
I tabloid inglesi la immortalano proprio su questo enorme parcheggio: i capelli neri striati di grigio, lunghi, spettinati, pantaloni e camicia bianchi.
C’è un’altra foto, di cinquant’anni fa, lei è in ospedale per riconoscere il cadavere di Lee: gli occhi ai confini delle lacrime, la bocca ripiegata in una smorfia di dolore, eppure è bellissima con in braccio la piccola June, che ha 22 mesi, l’altra Rachel che è appena nata, viene lasciata da un’amica. Basta guardare questa immagine e si capisce perché lui perde la testa una notte di marzo del 1961 quando la vede per la prima volta ad un ballo dei cadetti a Minsk, dove è andato a vivere scappando dagli Stati Uniti. Lei, anni dopo, confessa: «Non l’ho mai amato». In realtà non è così e di quei giorni scrive: «Ero allegra e felice che l’affascinante straniero si accorgesse di me». Si sposano subito e poco dopo tornano in America con un viaggio che tanto fuoco soffia sul complotto, sino ad indicarla come agente del Kgb.
Nella prima intervista ad una tv pubblica di Dallas, pochi mesi dopo l’omicidio lei si arrende: «Non vorrei crederlo, ma i fatti provano che è stato lui». Poi piano piano modifica la versione: «Non ha agito da solo, era in mani ai servizi», sino ad arrivare alla certezza di oggi: «La mamma sa che papà era innocente e anche noi la pensiamo così», conferma al National Enquirer la figlia Rachel.
La notte prima dell’attentato lei e Lee non dormono assieme, litigano sempre in quel periodo. Lui però passa a salutarla e le promette di comprarle la lavatrice, poi lascia su un tavolino la sua fede di nozze e un centinaio di dollari: «Usale per le scarpe delle bambine ». La fede che lei mette all’asta in ottobre, un mese prima del cinquantesimo anniversario. In una lettera scrive: “Penso al presente, ai figli e ai nipoti. In questo momento della mia vita non voglio più avere ricordi dolorosi di quel passato”.
Il vento scuote i rami degli alberi che circondano la casa sulla strada di Rockwall, le tende si scostano, ombre dietro le finestre, il cane non smette di abbaiare: la storia continua il suo ballo triste con Marina Nikolaevna Prusakova, la ragazza più bella di Minsk.