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 2013  novembre 22 Venerdì calendario

PATRIZIO PECI: “COSÌ DIVENTAI UN ASSASSINO”


Signor Peci, come nasce un brigatista rosso?
Tra il ’74 e il ’75 avevo aderito a Lotta continua. Erano gli anni in cui cominciò a sentirsi il peso della repressione. Nel mio paese, San Benedetto del Tronto, vi erano stati arresti durante le manifestazioni antifasciste, quasi tutti i compagni di Lotta continua finirono in galera o erano latitanti. Proprio in quel periodo arrivarono le prime notizie sulle Br. C’era stato il sequestro del giudice Mario Sossi, questa azione ci aveva molto colpito.
Quanti anni aveva?
Diciotto o diciannove.
Aveva terminato gli studi?
No, ero iscritto all’istituto tecnico industriale.
Da Lotta Continua com’è avvenuto il passaggio alle Br?
A causa della repressione abbiamo cominciato a muoverci clandestinamente: le riunioni le facevamo nelle case dei compagni, poi è maturata l’idea di entrare in azione: abbiamo rubato un ciclostile, bruciato le macchine dei fascisti, i primi pestaggi, ricordo quello di un professore di estrema destra.
Chi l’ha convinta a trasformarsi in un ribelle della società che spara?
Onestamente devo dire nessuno. La maturazione è stata mia. Io ho scelto la mia strada.
Chi è stato il primo brigatista che lei ha incontrato?
Fausto Jacopini, lavorava alla Sit-Siemens di Milano e contemporaneamente faceva parte dell’organizzazione. Tramite lui incontrai Giorgio Semeria e Nadia Mantovani.
Chi era il suo capo?
Ho iniziato a lavorare a Milano nella brigata logistica con Angelo Basone, poi direttamente con la Mantovani.
Senta Peci, a quanti omicidi ha partecipato?
Ho otto imputazioni di omicidio, non ho partecipato a tutti gli omicidi, ma ho preso la decisione di eseguirli, a quattro invece ho partecipato direttamente.
Ha partecipato agli omicidi di chi?
All’omicidio del maresciallo di polizia Rosario Bernardi, del giornalista Carlo Casa-legno e altri ancora.
Perché avete deciso di uccidere il vicedirettore de “La Stampa”?
Casalegno si occupava di terrorismo e aveva scritto articoli piuttosto duri su di noi. La mia colonna, che a quel tempo era a Torino, decise che era un obiettivo da colpire.
Lei partecipò alla scelta di Casalegno?
Sì, inizialmente avevamo deciso di azzopparlo soltanto. Poi morì in carcere, in Germania, Andreas Baader insieme ad altri compagni e Casalegno scrisse giudizi molto pesanti, così decidemmo per la sua morte.
Che cosa accadde?
Facemmo un primo tentativo che fallì, poi formammo un altro nucleo militarmente non adeguato: per uccidere una persona ci vuole la giusta determinazione, bisogna crederci. Uccidere è una cosa tremenda.
Lei ha ucciso?
Ho partecipato alle azioni attivamente, ma non ho mai sparato per uccidere.
Avrebbe avuto la forza di farlo?
Allora penso proprio di sì.
Lei che parte ebbe nell’omicidio di Casalegno?
Eravamo in quattro. Avevamo deciso di colpirlo dentro il portone di casa. Due di noi stavano dalla parte opposta della strada. Come lo videro arrivare, attraversarono il viale ed entrarono insieme a Casalegno. Ero armato di mitra, avevo il compito di controllare la zona esterna al portone. Dei due che erano entrati, uno doveva sparare e l’altro aveva il compito di proteggerlo dal portinaio o da qualsiasi altro imprevisto. Spararono con una pistola munita di silenziatore. La seconda volta non ci furono sorprese.
Come facevate con i soldi?
Avevamo uno stipendio di 250.000 lire al mese equiparato a quello di un operaio metalmeccanico con la differenza che non pagavamo l’affitto, la luce pagata, ecc.
Come ha fatto a diventare un capo?
Grazie all’esperienza e all’impegno, sapevo dirigere l’organizzazione abbastanza bene e avevo imparato un po’ tutto dal punto di vista militare.
Amicizia, amore, solidarietà: che senso hanno per un brigatista?
Tantissimo.
Chi erano le donne che venivano con voi e dividevano la vostra sorte?
Un uomo che viveva in clandestinità poteva mettersi solo con una compagna brigatista, non poteva aver rapporti sentimentali al di fuori dell’organizzazione, tutto era subordinato al lavoro. Cambiavamo spesso di zona e quando venivi spostato perdevi anche la ragazza. Ci si vedeva solo per ragioni di lavoro e quando c’era del tenero si cercava di abbinare le due cose. Il rapporto era prima di tutto politico e poi sentimentale. C’erano delle regole da rispettare, anche se ognuno di noi faceva le proprie scorrettezze. Ho avuto una ragazza, Maria Rosaria Roppoli, e per incontrarla ho corso dei rischi.
Co m ’è stato il vostro rapporto?
Inizialmente era solo un fatto di stima e di condivisione della stessa vita, poi forse il fatto di rischiare insieme di morire, pian piano mi sono affezionato, tant’è che dopo che avevo deciso di collaborare chiesi a mio fratello Roberto di parlarle e di spiegarle il perché della mia scelta e che da me non avrebbe mai avuto nulla da temere.
La ragazza che cosa fece?
La Roppoli scelse di consegnarsi. Prima andò a trovare mio fratello, mangiò, si lavò, si tagliò i capelli, e poi Roberto l’accompagnò alla stazione. Quando arrivò a Torino si consegnò dicendo che io ero un traditore. Denunciò mio fratello, dicendo che l’aveva minacciata: “Sei pedinata. Ti posso fare arrestare, ecc.”. Sicuramente ha avuto un ruolo importante nel suo sequestro.
La ragazza l’ha accusata di essere un infame.
Infame è un termine che si deve usare all’interno della malavita, oppure quando si tradisce un amico. Io non mi sento di aver tradito, io ho fatto una scelta, una scelta politica.
Non crede di aver tradito i suoi vecchi compagni?
Assolutamente no.
Lei li ha fatti andare in galera, sì o no?
Sì, li ho fatti andare in galera. Io sono entrato nelle Brigate rosse perché credevo che, attraverso una certa linea politica si arrivasse a una società migliore. Man mano che salivo all’interno dell’organizzazione, conoscendo sempre più come stavano le cose, ho cominciato a cambiare idea, a chiedermi se era giusto continuare ad ammazzare altre persone. Quando ho ucciso l’ho fatto perché ci credevo, altrimenti non l’avrei fatto. Denunciare gli altri ha voluto dire far smettere di uccidere.
D’accordo, ma lei deve rendersi conto che dal punto di vista di un brigatista finire in galera per la denuncia di un compagno può provocare un giudizio diverso.
Ero convinto che la lotta armata fosse finita, non avevamo più possibilità di vittoria. Se non avessi fatto quello che ho fatto, non sarebbe finito tutto così in fretta.
C’era un grande vecchio, una mente che pensava più degli altri?
No, come era stato ipotizzato dai giornali no. C’erano dei compagni più esperti, che avevano una militanza più lunga nell’organizzazione.
Chi era il più esperto di tutti, quello che aveva maggior credito?
Mario Moretti, il capo indiscusso.
Come comunicavate tra voi?
Fissavamo degli appuntamenti, generalmente in una piazza. Non ci si presentava col proprio nome, se ne usava uno inventato.
Lei come si chiamava?
Io ho avuto due nomi di battaglia: il primo Rodolfo, poi quando andai a Torino, Mauro.
Provava odio per quelli che considerava nemici? O era come sbrigare una pratica burocratica?
Odio è una brutta parola, però forse lo era.
Ha mai avuto paura?
Certo, a volte la paura si confondeva con la paranoia, soprattutto quando accadevano degli imprevisti. Il problema era di bloccarla per rimanere lucidi. Anche quando si aspetta sotto casa qualcuno, per ore, travestiti con barba e baffi finti, la tensione è altissima. A volte mi è successo che, prima di entrare in azione, ho vomitato.
Lei ha dei rimorsi?
Ne ho tanti, soprattutto per la gente che ho ucciso e per quello che è accaduto a mio fratello Roberto.
Le dispiace se parliamo di suo fratello?
No.
Si è letto nei verbali delle Br che suo fratello ha dato di lei giudizi terribili e l’ha accusata di essere colpevole della sua morte.
Quel filmato dove lui dice tutto questo è stato una messa in scena perché gli avevano promesso che poi lo avrebbero liberato, invece lo hanno ammazzato.
Lei come fa ad avere questa sicurezza?
Come l’ho saputo non lo dico.
Lei è il salvatore del professor Negri almeno per quanto riguarda la responsabilità sul sequestro Moro: cosa ne sa della vicenda?
Negri non c’entrava con Moro. Il piano fu deciso prima dal fronte logistico delle Br, poi dall’esecutivo.
Aveva saputo qualcosa sul comportamento di Moro durante la prigionia?
Sì, ho sentito dire che ha avuto un comportamento molto dignitoso, non ha ceduto su niente, è rimasto lucido fino in fondo.
Pensa che si sarebbe potuto salvare?
Indubbiamente.
Facendo che cosa?
Lui si sarebbe potuto salvare se avesse parlato, risposto alle domande, se avesse creato delle contraddizioni all’interno dello Stato e della Democrazia cristiana, in particolare.
Da l l ’esterno Moro poteva essere salvato?
Sì, se ci fosse stato il riconoscimento delle Br, sarebbe bastata anche la liberazione di un detenuto malato.
Per molti lei è stato il principale sterminatore delle Br: è vero o no?
Secondo me le Brigate rosse si sono scardinate da sole; forse io ho dato la prima spallata, penso anche che se non ci fossi stato io, ci sarebbe stato qualcun altro. Le Br non esistevano più politicamente.
Dopo tutte queste esperienze, che idea ha della morte?
Tremenda.
E della vita?
Bellissima. Secondo me vale la pena viverla fino in fondo.