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 2013  novembre 22 Venerdì calendario

SE LE CITTA’ SI RIBELLANO AI SINDACI RADICAL-CHIC

Doria a Genova, Pisapia a Milano, De Magistris a Napo­li, Marino a Roma, hanno in comune più cose. Sono borghesi e/o aristocratici progressisti, vengono dal mondo delle professioni, sono espressione della «società civi­le», guidano da sinistra-sinistra, sinistra-centro, centro-sini­stra e simili, quattro delle più importanti città italiane, dopo essere stati eletti in modo pressoché trionfale. È un minimo comun denominatore forte, a cui si aggiunge però parados­salmente un altro elemento unificante che vanifica tutto il resto: sono impopola­ri, governano male, provocano il rimpianto per il «peggio» che c’era prima...
L’impopolari­tà è il contrappas­so da pagare per aver cavalcato la popolarità, che del populismo è la variante colta, l’anticamera del­la demagogia, in­somma. L’Italia è uno strano Pae­se, soffocato dal­le burocrazie, in­catenato alle cor­porazioni, avvol­to nella nebbia dei codici, dei co­dicilli e dei ricor­si, e che però s’il­lude con l’elezio­ne diretta del pri­mo cittadino di essere come gli Stati Uniti. È una sorta di decisioni­smo all’amatri­ciana più che al­l’americana, tan­to più esplosivo nei suoi effetti ne­gativi, quanto più la crisi econo­mica non permet­te sconti e brucia le aspettative ancor prima che dalle parole dette si passi agli eventuali fatti. Avendo promes­so troppo, è il minimo che ci si possa aspettare.
Il populismo in mano alla co­siddetta società civile borghese è un’arma di distruzione di mas­sa. Per storia, cultura, abitudini, frequentazioni, Doria, Pisapia, De Magistris, Marino non han­no la minima idea di che cosa sia il popolo e la sua complessa stra­tificazione sociale. Scambiano i bisogni per capricci, confondo­no le proprie abitudini per virtù civiche. Il ciclista Marino è, sot­to questo aspetto, ancora più ri­dicolo del ciclista Pisapia, se non altro per i sette colli di una città tanto eterna quanto ormai sterminata,ma l’idea che per ri­solvere il problema del traffico si debba andare in bici è talmen­te surreale da concludere saggia­mente che si potrebbe andare tutti a piedi e piantarla lì... È il frutto di quel progressismo ar­caico di cui una certa sinistra ha finito con il farsi portatrice, fa­cendole rimpiangere tutte quel­le piccole cose di pessimo gusto che prima aveva allegramente calpestato. C’è dietro il ron ron soddisfatto di chi nel chiuso di abitazioni confortevoli, nel cen­tro cittadino, ha casa e ufficio a poca distanza, non vuole frustra­zioni né fastidi, vorrebbe essere lasciato in pace. Così il popolo è felice, pensa.
Il popolo, invece, sta incazza­to. Diminuiscono i servizi, au­mentano le imposte, chiudono gli esercizi commerciali, e sem­pre più una massa di nuovi pove­ri fa la sua casa di cartone negli androni di quei centri cittadini storici svuotati della gente e del­le merci, e intanto i singoli quar­tieri e le periferie degradano per una micro e macro-criminalità tanto più offensiva quanto il sin­golo cittadino si accorge che il compito principale della polizia urbana sembra essere diventa­to quello di affibbiare multe per sosta vietata, l’altra arma fiscale con cui il primo cittadino pensa di fare cassa. E certo, da Genova a Milano, da Napoli a Roma, c’è intanto, nelle bellissime sale consiliari ospitate, va da sé, nei più bei palazzi metropolitiani, il sindaco che orgoglioso ed entu­siasta promette la cittadinanza onoraria al Dalai Lama, annun­cia che arriverà ospite Bill Clin­ton, plaude al gemellaggio con la capitale della Papuasia, espri­me la sua indignazione per la Si­ria, proclama il proprio, nel sen­so di città, rifiuto della guerra...
Parole,parole,parole...La ver­bosità accompagna gli eletti del­la cosiddetta società civile, e va sottobraccio a una curiosa cultu­ra del controllo e del divieto, tan­to più proterva quanto inane, la tolleranza zero per la pizza al ta­glio o il panino di kebab... Se pe­rò si occupa un teatro pubblico, si troverà subito un comitato di garanti che, benedetto dal sinda­co, ne certificherà la liceità, la de­mocrazia, naturalmente,il patri­monio culturale che quell’occu­pazione rappresenta... È una sorta di opera dei pupi, su cui ci sarebbe da ridere, se non fosse che ormai ci sono restati solo gli occhi per piangere.
Si dirà, ma Doria, Pisapia, De Magistris, Marino, arrivarono al successo sull’onda dei disastri precedenti. E certo, e chi lo ne­ga... Come dimenticare l’entu­siastico «abbiamo scassato» del primo cittadino napoletano, la «liberazione» di quello romano, «l’onda arancione» del milane­se, «il marchese rosso» incarna­to dal genovese. Promettevano tutti una rivoluzione, pur sapen­do benissimo di non poterla fa­re. Hanno pensato che dando vi­ta a una pura e semp­lice conser­vazione infiocchettata di morali­smo e di politicamente corretto sarebbe stato sufficiente. Si sba­gliavano, semplicemente.
Gli scandali, le crisi, i rimpa­sti, hanno fatto il resto.Con l’ag­gravante della presunzione per chi, proprio perché proveniva dall’Italia «pulita, avanzata, lai­ca, democratica, antifascista» eccetera eccetera, si riteneva im­mune dalle critiche, derubrica­te a campagne di stampa interes­sate, macchine del fango e così via. È l’ennesimo paradosso di una sinistra minoritaria e bor­ghese, murata nei propri privile­gi, che continua a travestirsi da ancella degli umili e dei disere­dati, nemica dei privilegi e delle ricchezze. Degli altri, è il caso di dire.
La rabbia e il disgusto di chi in quelle città ci vive, nasce anche da questo, dal tartufismo di cui fanno mostra i suoi massimi rap­presentanti, sem­pre così assertivi e sempre così convinti di sé, con l’aria di supe­riorità soddisfat­ta di chi non dubi­ta mai e si adom­bra se qualcuno gli dice che maga­ri sta sbagliando. Rimandano a quella considera­zione del vecchio Bertolt Brecht: «Se il popolo non ci vota, si cambi il popolo». Chi ha ormai un’età e si ricorda com’erano que­sta città trenta, quarant’anni fa, è preso dallo sconforto. Della «primavera dei sindaci» che più di vent’anni fa sancì il nuovo cor­so dell’elezione diretta, si fa fatica nelle grandi città a ricordarne uno degno di interesse. Più che ge­stioni virtuose si tramandano buchi di bilancio, feroci scambi d’accuse, un lento quanto inar­restabile disagio sociale. L’effi­cienza meneghina non esiste più, il nuovo rinascimento napo­letano non è mai sbocciato, l’universalità capitolina si popo­la di baraccopoli, la superbia di Genova è naufragata misera­mente. Navigano tutte a vista, con nocchieri improvvisati che cercano di privatizzare i falli­menti, scaricando sui più deboli il peso della crisi e dell’inefficien­za. È certo che nessuno di essi si dimetterà, nel cinismo consape­vole di chi ritiene il popolo, co­munque, bue. Può succedere però che se lo ritrovi da un gior­no all’altro trasformato in toro. E il rosso delle bandiere che li ac­comuna, renderà quel toro an­cora più cattivo.