Massimo Vincenzi, Il Venerdì 22/11/2013, 22 novembre 2013
IL PARADOSSO DI CLEMENTE: NEI TEMPI DI CRISI L’ARTE RISORGE
New York. Francesco si muove dentro una luce e apparenti contraddizioni nel suo studio a Green quartiere polacco di Brooklyn adesso popolato di giovani alla moda: casette basse capannoni dismessi come questo in cui italiano, nomade tra New York e l’India, Quadri enormi alle pareti e minuscole miniature in bacheca. Poi ancora fotografie, tecniche, esperimenti. Poltrone in legno screpolate dal tempo, taniche di smalti dappertutto. Un vecchissimo stereo e un nuovo affresca musica dentro gli ampi saloni. Clemente racconta la vita, il lavoro e soprattutto il ritorno in Italia, la sua prima volta con una importante mostra sulla Transavanguardia in scena a Palermo da dopodomani (24 novembre).
Perché è diventato artista?
«Codesto solo oggi possiamo dirti, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo. I versi di Montale sono forse la spiegazioni più chiara: sono arrivato a diventare un artista per esclusione, non volevo essere niente e fare niente di quel che offriva allora la vita. E così ho iniziato a dipingere, è passato tanto tempo, ma mi sembra ancora la decisione più naturale, più ovvia».
Come nasce un suo quadro?
«Dall’ascolto e dalle coincidenze. A un tratto mi accorgo che molti elementi dicono la stessa cosa, nello stesso momento: o meglio avverto che la dissonanza può avere un senso».
Guardando le sue opere vengono in mente due riferimenti, diversi tra loro ma in realtà vicini: il cinema e il viaggio.
«È vero, a me piace raccontare: ogni volta è come se scrivessi, appunto, un racconto o una sceneggiatura cui però mancano alcuni capitoli: sono indizi di una storia».
E il viaggio?
«Forse è uno degli aspetti più importanti per me: è una vera e propria tecnica. Solo se esci dal cerchio vedi il cerchio, voglio uscire da quello che conosco e vedere la realtà da estraneo. Per questo muoversi, spaesarsi, spezzare le abitudini è vitale».
Transavanguardia, espressionismo, surrealismo: lei però è sempre stato allergico alle etichette sul suo lavoro.
«Certamente, non voglio essere inscatolato dentro questo o quel movimento: è il primo passo per essere consumati».
Roma anni Settanta. Com’era?
«Vivissima e varia. Era il periodo degli esuli politici e questo aveva creato un ambiente cosmopolita interessante. E poi era povera, c’era una grande crisi economica e questo – paradossalmente – è un bene per le arti. Solo se la vita costa poco una città può accogliere gli eccentrici e i geniali fannulloni che spesso circondano e nutrono gli artisti».
Come nella New York degli Anni 80...
«Quando sono arrivato era una metropoli in bancarotta, disperata. Così capitava che un ballerino d’avanguardia potesse sperimentare nel suo grande loft a Manhattan o che un pittore agli inizi potesse mantenersi senza troppe difficoltà: la passione culturale era al massimo livello».
Poi gli incontri con Warhol e Basquiat, di cui è diventato amico: cosa successe?
«Accadde un fatto che non accadeva dagli anni Quaranta, ovvero gli americani accettarono un artista europeo, lavorammo assieme».
E lei non ha più lasciato gli Stati Uniti.
«Da cosa nasce cosa, io mi lascio vivere: o meglio metto tutto lo sforzo nel vivere la vita che mi è data piuttosto che crearmene una».
E poi c’è l’India, in apparenza così lontana dalle luci americane: cosa unisce i due luoghi della sua vita?
«Sto due terzi dell’anno qui e un terzo a Varanasi: lo spazio è il tratto in comune. Lo spazio geografico della metropoli e quello atemporale, interiore dell’India. L’India è una medicina che si deve assaggiare lentamente, ma sino in fondo: io amo anche gli aspetti più arcaici della loro cultura mistica, quelli che fanno infuriare i miei amici indiani. In quale altro luogo del mondo si possono trovare due milioni di asceti che girano per le strade coperti solo di cenere che meditano e pregano?».
Soprattutto la pop art subisce la critica di gigantismo, di essersi svenduta al mercato.
«Secondo me l’arte è in salute. Certo è cresciuta a dismisura, a volte è un po’ soffocata da se stessa: sono aumentati gli spazi, le mostre, l’attenzione. Ma penso anche che se avere fortuna può essere un problema, non averne sarebbe un guaio ancora peggiore. Il capitalismo provoca fratture, l’arte invece crea vicinanza».
In oltre trent’anni di carriera c’è un lavoro al quale è più affezionato?
«Sono pazzo delle tende che ho in mostra a Berlino: le ho progettate sul modello di quelle che ho visto a Varanasi e mi hanno aiutato artigiani del posto, vederli in azione è commovente. Sono tutte dipinte dentro e ricamate fuori: sono il manifesto della mia vita di nomade».
E adesso c’è Palermo, ci andrà?
«Certo, andrò a installare la mostra. Sono molto emozionato, non sono mai stato in quella città: sono convinto che custodisca segreti affascinanti, spero di trovare qualche guida che mi dia le chiavi per aprire i suoi portoni e capirne il mistero ».
Come le sembra l’Italia vista da New York e dall’India?
«Io sono un artista, ogni volta invento una storia. Dunque penso che anche le altre storie siano invenzioni arbitrarie». Lo dice con un sorriso leggero, senza ironia, con affetto per il suo Paese: come se davvero il senso ultimo della vita potesse nascondersi nella narrazione visiva di un suo quadro, come se la magia dell’arte potesse salvare gli uomini, Italia compresa.