Enrico Franceschini, Il Venerdì 22/11/2013, 22 novembre 2013
IL MIO REGNO PER UN CAVALLO. L’IPPICA INGLESE FINISCE ALL’ASTA
Newmarket (Inghilterra). «Cinque milioni di ghinee e uno, cinque milioni di ghinee e due, cinque milioni di ghinee e tre, aggiudicato!»: e con un colpo di martello il banditore assegna il cavallo più costoso della storia a un nuovo proprietario. Siamo a Tattersalls, la casa d’aste di cavalli più antica d’Europa, in una grande stalla circolare aperta su un lato da cui entrano ed escono magnifici quadrupedi tenuti per il morso da uno stalliere. Da quattrocento anni qui si comprano e vendono i più bei campioni delle corse equestri; e se una volta il pubblico era composto quasi esclusivamente da English gentlemen, adesso sembra di essere nel palazzo di vetro delle Nazioni Unite: arabi, indiani, cinesi, russi, tutti i nuovi ricchi della terra, gli stessi che acquistano yacht, arte, palazzi meravigliosi, e che ora vogliono portare a casa anche stalloni, fattrici e puledri. Quello ancora senza nome, identificato soltanto come «Lotto 253», figlio di Galileo, famoso campione di galoppo, e di Alluring Park, altrettanto celebre fattrice, è passato alla storia ad appena sei mesi di vita senza avere ancora vinto niente: i 5 milioni di ghinee – l’asta si conduce con la vecchia valuta del British Empire – pari a 5 milioni e 250 mila sterline (un po’ più di 6 milioni di euro) sono un record, il prezzo più alto mai pagato per un cavallo a un’asta in tutto il mondo.
L’uomo che riceve pacche sulle spalle e complimenti, ma non inviti a brindare nell’elegante bar-ristorante accanto alle stalle, visto che per motivi religiosi è completamente astemio, si chiama sceicco Joaan al-Thani, ed è figlio dell’emiro del Qatar, ossia membro della famiglia reale del più piccolo Paese del Golfo Persico che tuttavia possiede il più grande giacimento mondiale di gas e l’immensa fortuna che ne deriva, usata negli ultimi anni per acquistare capolavori da museo, come I giocatori di carte di Cezanne, il Paris Saint German di football, e ottenere l’assegnazione dei Mondiali di calcio del 2022, promettendo stadi ad aria condizionata per ovviare ai 50 gradi di temperatura dell’estate o preparandosi a spostarli d’inverno: tanto nessuno dice di no al Qatar.
Ma mentre uno sceicco gioisce per il suo puledrino da 5 milioni di ghinee, sulle tribune di Tattersalls un altro sceicco digrigna i denti, minaccia scompigli ed esige che venga ripulito il suo nome. Si tratta di Sua Altezza Mohammed bin Rashid al Maktoum, signore del Dubai, anch’egli seduto su un pozzo senza fondo (pieno di petrolio) e una montagna di miliardi, anche lui impegnato a comprare arte, squadre di calcio (il Manchester City ) e cavalli. Soprattutto, cavalli: tra le scuderie Godolphin di Newmarket, la cittadina un’ora e mezza a nord di Londra dove si trovano Tattersalls, l’antica casa d’aste, e il più vecchio ippodromo d’Inghilterra, un’analoga azienda equestre a Lexington, nel Kentucky, ed una in Australia, lo sceicco Mohammed è infatti il più grande proprietario di cavalli da corsa del pianeta. Colui che ha i migliori cavalli, i più esperti fantini, i più ricchi trofei.
Eppure il 2013 è stato un annus horribilis per il signore del Dubai. In aprile l’allenatore capo delle sue scuderie inglesi, Mahmood al-Zharooni, è stato sospeso per otto anni dopo la scoperta dell’uso di steroidi anabolizzanti da parte di 22 dei cavalli sotto le sue cure. E il mese scorso un aereo della Dubai Royal Air Wing, la compagnia aerea dello sceicco, è atterrato all’aeroporto di Stansted, a pochi chilometri da Newmarket, carico di sostanze proibite per cavalli. Mohammed ha affidato alla più giovane delle sue mogli, la principessa Haya, figlia del re di Giordania e lei stessa campionessa equestre, un’indagine interna per trovare i responsabili. Personalmente, afferma di non sapere nulla, né delle accuse all’allenatore, né dell’aereo carico di droghe. «Già, lui non ne sapeva niente, poverino» ironizza un allevatore francese nel catino di Tattersalls, mentre prosegue l’asta: qui bisogna stare attenti ad alzare una mano o ti affibbiano un cavallo da qualche milione di euro e poi bisogna anche pagarlo. Ma pure dando per scontato che lo sceicco sia veramente estraneo alla vicenda, l’umiliazione di vedere i suoi collaboratori e la sua società coinvolti nel peggiore scandalo di doping nella storia dell’ippica è per lui uno schiaffo insopportabile, l’equivalente di essere sbattuto in prigione.
Tra uno sceicco che festeggia e uno che s’arrabbia, l’ippica inglese in realtà non potrebbe stare meglio. Tutto è in mani private, non dello Stato, con il risultato è che gli ippodromi inglesi sono come gli stadi di calcio della Premier League: belli, puliti, moderni, comodi e strapieni di spettatori. Il 2012 è stato un anno di guadagni senza precedenti per il settore: l’ippica è il secondo sport più seguito del regno, con un giro d’affari di 3 miliardi e 700 milioni di sterline l’anno (4 miliardi e mezzo di euro). Ascot, il Derby di Epsom, le gare di Cheltenham sono le punte di una stagione che non delude mai, i grandi fantini del passato come Lester Piggott trovano emuli in quelli di oggi come l’italiano (trapiantato in Inghilterra) Frankie Dettori, e il Jockey Club, fondato nel 1750, riesce a rappresentare contemporaneamente tradizione e innovazione. Ci sarebbe molto da imparare da queste parti per l’ippica italiana (come per il nostro calcio del resto), che langue tra ippodromi che chiudono e altri deserti. «Qui il cavallo è una cultura» dice Andrea Branchini, italiano proprietario di una ditta di spedizioni di destrieri da corsa a Newmarket.
In questo paesino che ha perfino i marciapiedi riservati ai cavalli, durante le aste non si trova una stanza libera e tutti raddoppiano i prezzi, come se fosse la serata degli Oscar. Sfilano Rolls-Royce e Range Rover, donne velate e donne con lo spacco e i tacchi a spillo, uomini in cilindro e uomini in stivaloni, tra fiumi di scommesse e di champagne. L’unico scontento è lo sceicco Mohammed, cresciuto tra oasi e cammelli, laureato a Cambridge, così ricco e potente da voler far scrivere i versi di una propria poesia sull’acqua del Dubai, con isole artificiali a forma di lettere visibili fin dallo spazio, che ora si vede trascinato nel fango del doping mentre un cugino arabo del Qatar gli porta via un puledro da record. Forse sarebbe pronto a ripetere le parole immortali del Riccardo III di Shakespeare: «Il mio regno per un cavallo». Ma è meglio non chiederglielo. Non ha l’aria di avere voglia di parlare con nessuno.