Mario Fillioley, IL 21/11/2013, 21 novembre 2013
LA VITA IN BICICLETTA E’ UNA GRAN BUFALA
LA VITA IN BICICLETTA E’ UNA GRAN BUFALA –
1. Idiosincrasie personali presentate sotto forma di idee chiare e distinte
A me andare in bici piace, Però per tare sport. La piglio, tutta bella lucida ed eterea perché fatta di polveri metalliche miste a vernici vaporizzate, ci salgo sopra, ci faccio settanta chilometri, poi scendo, la lucido, la rimetto in garage e corro a spalmarmi la pomata lenitiva tra il cavallo e lo scroto. Le soluzioni di mobilità urbana che prevedono la bici, invece, mi angosciano. Le leggo come una specie di futurismo postumano: c’è stata la guerra atomica, siamo tornati all’ età del ferro, viviamo sul pianeta delle scimmie e in giro c’ è Mad Max pronto a ucciderti per una tanica di benzina, quindi, se vuoi spostarti, devi assemblarti una bici con mezzi di fortuna e pedalare col sudore della fronte e il sangue delle emorroidi.
1.1 Ferro, non titanio
La tendenza infatti è alla cantina e al riuso. Non le leghe al titanio, le fibre di carbonio ultraleggere, i copertoni tubeless antiforatura, il cambio elettronico e i freni a disco, ma il ferro vecchio, riverniciato fluo e rigorosamente a scatto fisso (in modo da schiattare di fatica al primo dosso e sembrare Ridolini alla prima discesina), la piccola borsetta in cuoio consunto contenente relativo kit di riparazione (tip top e mezzo litro di sputazza) che pencola da sono il sellino con le molle, o in alternativa - nella versione più antisistema di tutte - un trespolo pieghevole su cui abbarbicarsi in precario equilibrio, da smontare e rimontare a ogni sosta come le sorprese dell’ ovetto Kinder. Una regressione, oltre che verso il premoderno, anche verso l’ infanzia: mirabile il tripudio di Grazielle, originali o imitate, che lascia presagire altre poco desiderabili riemersioni dal passato. Presto ci capiterà di guardare distrattamente lo specchietto retrovisore ed essere terrorizzati dalla visione di Pennywise, il clown di It di Stephen King, che ci insegue impennando a bordo di una Saltafoss: è tornato, e vuole riportare tutti gli automobilisti dentro ai Pozzi Neri.
1.2 La bici, la città, ma soprattutto il ciclista
Anche a voler soprassedere su tutto questo (in fondo si tratta dell’ eterno scontro ideologico tra passatisti e progressisti), l’idea che la bici possa risolvere i problemi del traffico e dell’inquinamento non tiene conto che, quando ci si sposta, spesso ci si sposta al fine di trasportare cose o persone, e di un assioma di lampante evidenza: per andare con la bici in città, ci vogliono città fatte per andare in bici. Chi è dunque veramente, e allo stato attuale delle cose, il ciclista urbano?
2. Beati i poveri poiché loro sono le rastrelliere
L’immagine di ciclista urbano dispensata dai vari gruppi Facebook, dai numerosi siti per il bike sharing e dalle tante campagne per la mobilità sostenibile è quella di un santo spogliatosi di ogni peso, puro spirito capace di epurare le cose della loro materialità: egli veste i pantaloncini imbottiti come Francesco vestiva il saio. E in effetti il radicale che adopera la bici assomma in sé parecchie pose pauperistiche, qualche isteria millenarista-decrescista e una palese radicalchicheria hipsterica. Eccolo là, il volto sorridente, che pedala agile e flessuoso nel bel pieno di una giornata di sole, mentre si gode il suo percorso casa-ufficio come fosse una scampagnata, mentre tutto intorno a lui automobilisti molossoidi sbavano ferocia e si tamponano in ingorghi-apocalisse che ricordano uno di quei fumetti incasinatissimi di Jacovitti: un’umanità avvolta da una fantozziana nube di anidride solforosa che insiste solo su chi si sposta mediante quattro ruote anziché due. Libero da ottuse convenzioni legate all’abbigliamento sui luoghi di lavoro, il ciclista urbano veste in maniera luxury casual. Incurante di aloni sotto l’ ascella e carte geografiche della salinità perduta lungo la schiena, il ciclista urbano non suda, e se suda si è dotato di un pratico sistema a tubicino che potabilizza gli effluvi e li tramuta subito in integratori, consentendo l’immediata reidratazione e completando così il sacro circolo del riciclo totale.
2.1 II ciclismo urbano come utopica negazione dell’ esistente
La bici diviene icona dell’ ecoecumenismo: i guerrilla cyclist arrivano cioè a dimenticare le ragioni stesse della loro battaglia (rendere le città più vivibili) e tralasciano di specificare che quel tipo di mobilità alternativa richiede un’urbanistica alternativa come sua stessa precondizione. Gli adepti della setta ciclistica puntano dunque a fare proseliti prospettando non un contesto alternativo, ma un modo alternativo di vivere il contesto: la bici è uno stile di vita, urlano gli slogan.
2.2 Ogni ciclismo è un egotismo
È proprio questo a rendere odiosa la sua promozione: la bici è un modo per infischiarsene. Nel mondo infuriano l’ insensatezza e il caos, ma io, che sono smart, mi sposto un po’ più in là, sulla mia bolla mobile che separa il pulitissimo me dai tempi luridi che m’è toccato in sorte vivere. Del resto ogni bici è un’isola, il più individualista dei sistemi di spostamento.
2.3 L’insostenibile ciclabilità di una famiglia
Delle due l’una: se hai una bici non puoi avere una famiglia, bambini da accompagnare a scuola, a tennis, a pianoforte, madri, nonne, zie con le loro visite dal dottore o in farmacia per misurarsi la pressione. Se hai una bici non fai la spesa al supermercato, non compri 6 cassette di acqua da 2l per dare da bere agli assetati di casa tua, il tuo gatto non reclama sacchi di lettiera o forse quando la fa è così educato da riabbassare sempre la tavoletta, non sai che cosa siano i borsoni per la scuola calcio, gli zaini per i compiti a casa del compagnetto di banco, i seggiolini, i passeggini, gli scatoloni quadrati e piatti dell’Ikea. Tu hai la tua bici e vivi la più leggiadra delle vite: sei single, probabilmente. Oppure puoi vivere come se lo fossi. Nulla ti lega a nulla, e sei libellula, mongolfiera cui recisero la zavorra che l’ormeggiava al suolo, elio purissimo che si riavvicina al sole.
2.4 Fenomenologia dell’ accessorio minimal-inutile
Al massimo hai un cestino di vimini intrecciato sul davanti, in cui appoggiare una mela (il tuo pranzo), e un telaietto cromato a fare da portapacchi sul retro, su cui legare l’esile cartelletta minimal da lavoro che a breve adagerai sulla scrivania del tuo open space di boh? Cupertino, dove di certo svolgi un lavoro creativo, come per esempio disegnare estrosi telai di biciclette per un’officina eco friendly.
2.5 II contesto (quello falso/quello vero)
La tua strada non conosce salita, il tuo asfalto è un nastro di seta. Mai voragini che mutino in palude dopo appena tre gocce d’acqua, le tue carreggiate hanno larghi marciapiedi per i pedoni, ampie corsie per altri ciclisti urbani dall’aspetto salutivo simile al tuo e per la loro prole dalle gote rubizze, che segue i genitori al sicuro, in fila indiana, fin dalla tenera età in cui alle bici si applicano le rotelle.
2.6 Mangino ottani
Più in là, dietro una barriera sonora che li rende meno molesti, quegli zotici grassoni degli automobilisti confinati in una terza corsia dal trionfo delle tue politiche inneggianti l’Apartheid.
3. “Um outro mundo è possivel”
Naturalmente il mondo idilliaco appena descritto esiste: i Paesi scandinavi, o più in generale il Nord Europa. Lì le bici sono il mezzo più diffuso, le auto sono utilizzate solo quando serve, e a garantire gli spostamenti misti c’ è un trasporto pubblico capillare ed efficiente. Ma anche con tutto questo - fondamentale e necessario - apparato di contorno che incoraggerebbe l’uso della bici, l’Italia, o almeno le zone dell’Italia che bazzico io, non potrebbe lo stesso abbracciare questo tipo di mobilità. Il motivo? Chiediamolo a Edward Banfield (vedi titolo sotto).
3.1 Familismo (amorale?) e ciclismo
I Paesi scandinavi sono Paesi con stili e abitudini di vita a misura di bicicletta. I single (se si comprendono tra essi anche quelli cosiddetti “di ritorno”) sono quasi più delle famiglie. Le famiglie sono composte da genitori e figli per un tempo assai limitato: raggiunta l’ età scolare, i pargoli trascorrono fuori casa e per i fatti loro pressoché la totalità del giorno. I papà e le mamme se ne liberano in fretta e fanno presto a tornare coppie (o single), con i figli giovani che a loro volta poi diventano single (o coppie senza figli), ognuno con la sua bici. I rapporti col resto dei componenti, nonne, zii, cugini, sono praticamente nulli. Quasi tutti abitano in città diverse o in quartieri distanti tra loro come città. Ognuno è per i fatti suoi. Ognuno può permettersi una spensierata vita da ciclista urbano. La spesa consiste in un sacchetto di carta marrone e una bottiglietta d’acqua da mezzo litro. Ad accompagnare i bambini ci pensa lo scuolabus. Alle grandi distanze provvedono treni iperveloci e iperfrequenti. C’ è freddo e si suda pochissimo. Le salite sono rare. Insomma, è un’altro mondo: quell’altro pianeta che descrivevo prima.
3.2 Un mondo migliore, ma anche un po’ più scemo
Pur con tutto questo, le volte che ho visitato da turista quei Paesi, osservare i loro abitanti mentre si trascinano dietro quegli strani rimorchi su cui caricano talvolta i figli e tal altra le suppellettili non mi ha trasmesso un senso rilassatezza o di vita a dimensione umana, quanto piuttosto un’ostinazione asinina. C’è in quel loro compiere fatica e organizzare strani e macchinosi convogli, pur di poter effettuare in bici manovre e trasporti per i quali la bici è costitutivamente inadatta, una maniacalità e una mancanza di elasticità che ha dell’inquietante: oggi ti serviva un camion, non una bici, per oggi lasciala a casa e piglia il Fiorino.
4. Conclusioni
A ogni modo, prendere una bici nel mio mondo è un inferno. Quando esco per fare sport, sono costretto ad attraversare pochi chilometri di percorso urbano (oltretutto di una piccola città) prima di poter raggiungere strade meno frequentate su cui allenarmi. È la parte più pericolosa: sebbene le auto viaggino a velocità ridicole, il rischio di cadere, essere travolti, ignorati, costretti a manovre da stuntman, è alto, o almeno lo si percepisce come tale. Se penso a usare la bici in quel contesto, magari carico di buste, o con un bimbo accomodato sul seggiolino, sento montare un’ansia tremenda e avverto subito un senso di spossatezza che va ben oltre quella dei chilometri fatti per tenersi in forma. La bici è un mezzo assolutamente non idoneo alla vita di tutti i giorni. Ammettendo che una rivoluzione politica, amministrativa, architettonica e urbanistica che riesca a farci somigliare a un Paese scandinavo sia possibile (e non lo è) e che i miei nipoti riusciranno a vederla attuata, resterebbe un fatto che sta a monte di tutto: la bicicletta è un mezzo primitivo e di utilità inferiore. Abbiamo inventato i veicoli a motore appositamente per non doverla più usare. Ha una sua ragione d’esistere per il tempo libero e per una minoranza di individui che può permettersi il lusso di adoperarla nel quotidiano. Ma spacciarla per soluzione collettiva è una presa in giro. O quantomeno una chimera: alla bici, qui, semmai ci arriveremo dopo. Dopo gli autobus. Dopo le corsie preferenziali per gli autobus. Dopo le strade. Dopo le strade senza buche. Dopo le piste ciclabili. Dopo i treni. Dopo le metropolitane. In pratica, prima di uscire dalla modernità, noi dobbiamo entrarci.