Vito Tartamella, Focus 19/11/2013, 19 novembre 2013
IL VECCHIO MATTONCINO È HI-TECH
La fabbrica di Babbo Natale esiste, sforna ogni giorno miliardi di giocattoli per tutti i bimbi del pianeta: treni, aeroplani, guerrieri, draghi, astronauti. Non è popolata da elfi, ma da migliaia di operai in tuta blu che si aggirano fra nastri trasportatori, macchine di stampa e muletti che si muovono da soli nei corridoi facendo biip biip. Non siamo in Lapponia, ma quasi: a Billund, 2 mila km più a sud, un paesino di 6 mila abitanti nel cuore della Danimarca.
Benvenuti al quartier generale della Lego, impero mondiale del giocattolo. Qui un gruppo di 4 mila persone affronta ogni giorno una sfida creativa, tecnologica e logistica quasi impossibile: creare giochi di successo, sicuri e indistruttibili, capaci di stimolare la fantasia dei bambini (e degli adulti) a ogni latitudine.
In questi stabilimenti enormi e colorati, fatti di cemento, vetro e acciaio, il ritmo di lavoro è impressionante: siamo in Nord Europa ma sembra la Cina. Sette giorni su 7, 361 giorni l’anno, notte e giorno, si producono 42.000 elementi al minuto.
Sommando la loro produzione a quella degli altri 2 stabilimenti Lego in Ungheria e in Messico, si ottiene la spaventosa cifra di 45,7 miliardi di pezzi (dati 2012): impilati l’uno sull’altro, supererebbero la distanza Terra-Luna.
La Lego, infatti, è la terza società al mondo nel mercato dei giocattoli (ha venduto 10 confezioni al secondo nel 2012), ma anche la più grande fabbrica planetaria di stampaggio di plastica. E persino il primo produttore mondiale di pneumatici: 500 milioni l’anno, anche se il più grande ha un diametro di soli 11 centimetri. È dal 1962, infatti, che i mattoncini sono diventati dinamici grazie all’introduzione delle ruote di gomma per le macchinine, aumentando le loro già infinite potenzialità creative: con 6 mattoncini dello stesso colore – ha calcolato Søren Eilers, docente di matematica all’Università di Copenhagen – si possono ottenere oltre 915 milioni di combinazioni diverse.
FLAUTO DOLCE. Il quartier generale della Lego non passa inosservato: mattoncini extra large campeggiano all’ingresso e nella hall. Superata una porta automatica, si entra in una fabbrica pulita e modernissima, dove si può circolare solo con scarpe antiscivolo e gilet catarifrangente. La sicurezza è un’ossessione in una ditta dove il tasso di incidenti è di 1,9 per milione di ore lavorative.
Il viaggio del mattoncino inizia in un cortile dove svettano 14 silos pieni di plastica in granuli: ciascuno ne contiene 24 tonnellate, e ogni giorno se ne consumano 70. Per i componenti si usano 24 tipi di plastica; due terzi sono Abs (acrilonitrile-butadiene-stirene): la stessa usata per fabbricare i flauti dolci, le carrozzerie delle auto e gli inchiostri per tatuaggi. Una plastica resistente, antigraffio, che non perde colore. Gli ingegneri della Open University (Gb) hanno calcolato che per far collassare un mattone Lego bisognerebbe sovrapporgliene altri 375 mila in una pila alta 3,591 km.
Attraverso una rete di tubi ad aria compressa i granuli scorrono nello stabilimento, lungo 480 metri, e alimentano 763 macchine di stampo a iniezione suddivise in 12 moduli produttivi. I granuli, scaldati fino a 310 °C assumono la consistenza di un dentifricio: sono mescolati ai pigmenti di colore (58 tonalità diverse) e iniettati negli stampi a una pressione di 150 tonnellate per una decina di secondi. Gli stampi, in acciaio, riescono a produrre 670 mattoncini al secondo senza sbavature. Ma emettono 90 decibel di rumore, lo stesso di un tosaerba. Tanto che, vicino al reparto, ci sono sale isolate con bevande, merende e giornali dove gli operai vanno a far riposare i timpani.
ALTA PRECISIONE. Gli stampi sono il cuore produttivo della Lego: sono migliaia, pesano tra i 150 e i 1.500 kg e sono custoditi sugli scaffali di metallo di un magazzino super controllato. «Ognuno costa dai 50 mila ai 500 mila euro» spiega il portavoce Roar Rude Trangbæk. «Servono a produrre 3.200 componenti del mondo Lego, dai pompieri all’astronave, con un margine di tolleranza dai 2 agli 8 millesimi di millimetro»: in media, solo 18 elementi su 1 milione non rispettano gli standard qualitativi, che sono il chiodo fisso della Lego. Ecco perché i mattoncini che avete a casa si incastrano perfettamente con quelli degli ultimi 50 anni.
I mattoncini stampati sono raffreddati con un getto d’aria e guidati da un nastro trasportatore fino a un contenitore: quando è pieno, un sensore lo segnala a un computer e arriva un muletto automatico a prelevarli con un braccio metallico; poi va da solo a consegnarlo ai nastri trasportatori. Arrivano così in 4 magazzini alti fino a 21 metri (come un palazzo di 7 piani), dove gru robotizzate distribuiscono ronzando 1.300 contenitori all’ora lungo 250 km di scaffali.
IMPERO GLOBALE. Eppure, in questa fabbrica ipertecnologica il fattore umano è determinante: non sono sensori robotici a verificare la qualità dei pezzi appena sfornati dalle macchine, ma una squadra di operai che ne preleva dei campioni e li controlla con grandi lenti d’ingrandimento. Se per loro un mattoncino non è a regola d’arte, finisce in un cestino, e la plastica sarà riciclata. È anche questo il segreto di un impero globale presente in oltre 130 Paesi e con 81 anni di vita: una storia iniziata proprio a Billund, dove un falegname stretto dalla morsa della crisi economica, Ole Kirk Kristiansen, aveva deciso di produrre giocattoli di legno, convertendosi poi alla plastica alla fine degli anni ’40. Fino a quando – era il 1958 – suo figlio Godtfred ebbe l’idea di creare i celebri mattoncini, brevettandone il sistema di incastro a sporgenze rotonde e minitubi interni. Che da allora sono usati per ogni tipo di costruzione fantastica.
Dalle prime casette di allora fino alle mega astronavi di Star Wars, ne sono stati prodotti oltre 650 miliardi: in media, ogni abitante della Terra ne possiede 86 – potete controllare nella vostra cantina. Oggi l’azienda, 12 mila dipendenti e un utile di 1 miliardo di euro, è tuttora controllata dalla terza generazione dei Kirk Kristiansen, tutt’altro che intenzionati a entrare nei giochi... della Borsa.
MANINE. Ma torniamo ai mattoncini: stazionano in magazzino per 3 giorni, poi sono trasportati in uno stabilimento vicino, dove saranno assemblati fra loro, decorati con i colori e infine impacchettati nelle confezioni finali.
Anche qui, una sfida ingegneristica di alta precisione: immaginate macchine capaci di infilare in automatico manine del diametro di 2 mm (quelle delle minifigure, i celebri omini) nel foro delle braccia, o di dipingere un viso con occhi, sopracciglia, naso e denti su una faccina alta 5 mm. Ecco perché, su 47 macchine di questo stabilimento, 16 sono dedicate solo alle minifigure. Fino agli anni ’70 si facevano a mano; poi sono state introdotte macchine robotizzate capaci di produrre 7 mila pezzi all’ora. Negli ultimi 35 anni ne sono state sfornate più di 4 miliardi: oltre la metà degli abitanti della Terra. Merito di macchine assemblatrici e decoratrici automatiche, con stampa a tampone, dotate di sensori laser che riconoscono colore e posizioni dei vari elementi. Anche in questa fase il controllo finale è affidato, ogni 20 minuti, a operai in carne e ossa che scartano i pezzi venuti male. Poi i mattoni passano al confezionamento: caricati su nastri trasportatori che scorrono nei capannoni, affluiscono alle macchine impacchettatrici, in confezioni che possono contenere da 18 a 42 diversi elementi. Lungo il tragitto sono pesati da bilance elettroniche settate con una tolleranza di pochi decimi di grammo: se il peso non è quello previsto (per eccesso o per difetto) i sacchetti sono deviati su binari che li portano sulle tavole di operai che li controllano uno a uno a caccia del pezzo sbagliato.
Alla fine, ogni confezione da 206 mattoncini ha subìto, prima di uscire dalla fabbrica, più di mille controlli e 12 pesature. Attenzione eccessiva? «No: nessun papà vuole che il figlio si metta a piangere disperato perché il giorno di Natale ha scoperto che nella confezione manca un pezzo. E noi nemmeno, ovviamente» dice Trangbæk.
IMPREVISTI. Eppure, nonostante i controlli, l’errore è sempre in agguato. Durante la nostra visita, al mattino, una fila di operai riapriva le scatole a mano e le riempiva di nuovo: si erano accorti che in 9 mila confezioni di Star Wars “Battaglia di Hoth” mancava un pezzo. «Finiremo alle 3 di stanotte. Succede, a volte» dice un operaio senza scomporsi.
Ma il lungo viaggio del mattoncino non è finito: confezioni e singoli pezzi saranno caricati su Tir e inviati in Repubblica Ceca, dove la Lego ha il centro di decorazione e smistamento dei prodotti per l’Europa (gli altri sono a Dallas per il mercato americano e a Shanghai per quello asiatico): da qui, grazie all’alleanza con Dhl, sono inviati ovunque entro 10 giorni. L’intero sistema produttivo e logistico è messo a dura prova nelle 3 settimane prima di Natale, quando nel mondo si vendono 34 set Lego al secondo.
Oggi, a 55 anni dal brevetto, i mattoncini sono ancora il business dall’azienda, ma gli imitatori sono tanti e agguerriti, dalla Cina agli Usa. In più, dagli anni ’90, l’avvento dei videogames aveva mandato in crisi l’azienda, che ha perso centinaia di milioni. Ora ne è uscita. Come?
«Ci siamo concentrati sull’innovazione» risponde Trangbæk. «Ogni anno il 60% dei nostri prodotti è nuovo: la sfida è inventare sempre qualcosa di divertente. Per questo, oggi, offriamo un’esperienza di gioco su diverse piattaforme: dai giochi di ruolo ai videogames, da Lego Digital designer (il software che consente di costruire modelli con mattoncini virtuali) fino a Facebook, ai parchi a tema e ai raduni degli appassionati, gli Afol (Adults fan of Lego: nel 2012 hanno organizzato 500 eventi che hanno attirato oltre 9 milioni di persone). Per arrivare ai robot programmabili fatti di mattoncini. L’importante è che i clienti sappiano che la nostra qualità è sempre garantita». Un concetto che, in danese, si dice "LEg GOdt": giocare bene. Lego, per l’appunto.
Vito Tartamella