Jack London, l’Unità 21/11/2013, 21 novembre 2013
IO, JACK IL ROSSO – [L’AUTORE DI «ZANNA BIANCA» RACCONTA COM’È DIVENTATO SOCIALISTA]
È BENE SPIEGARE CHE SONO DIVENTATO SOCIALISTA IN UN MODO PIUTTOSTO SIMILE A QUELLO IN CUI I PAGANI TEUTONICI DIVENNERO CRISTIANI: MI FU SCOLPITO A FORZA. Non solo al momento della mia conversione non ero un simpatizzante del socialismo, ma lo stavo combattendo. Ero molto giovane e inesperto, non sapevo molto e anche se non avevo mai sentito parlare di una scuola chiamata «individualismo» elogiavo la forza con tutto il mio cuore.
Questo perché ero forte. Per forte intendo dire che godevo di ottima salute e avevo muscoli d’acciaio, caratteristiche ben visibili. (...) Il mio ottimismo era dovuto al fatto che fossi sano e forte, non avevo debolezze né venivo mai cacciato da un padrone perché non ero in forma; avevo sempre trovato un lavoro, che fosse spalare carbone o stare sulle navi, o qualsiasi altro lavoro manuale.
Per questo motivo, soddisfatto della mia giovane vita e in grado di mantenere il mio posto di lavoro e di vincere nella lotta, ero un individualista rampante. Era piuttosto naturale perché ero un vincente. Perciò consideravo la concorrenza e la competizione una cosa da veri uomini. Essere UOMO significava scrivere questa parola a caratteri cubitali nel mio cuore. Avventurarmi e combattere come un uomo, svolgere il lavoro di un uomo (anche per una paga da ragazzo), queste erano le cose che avevo raggiunto e che si facevano parte di me come nessun’altra. E guardando avanti all’orizzonte di un futuro nebuloso e interminabile, giocando a quello che ho concepito essere il gioco dell’uomo, avrei continuato a viaggiare, godendo di ottima salute, senza incidenti e con muscoli sempre vigorosi. Come dicevo, questo futuro appariva interminabile. Mi vedevo affrontare una vita senza fine come una delle bestie bionde di Nietzsche, desiderosa e conquistatrice di superiorità e di forza pura.
Devo confessare che non pensavo ai disgraziati, ai malati e agli uomini in difficoltà, ai vecchi e ai mutilati, se non maturando che, a meno di incidenti, avrebbero potuto essere efficienti nel lavoro quanto me, se lo avessero voluto realmente. Gli incidenti rappresentavano il fato, scritto anche in maiuscole e non c’era possibilità di evitarlo. Napoleone aveva avuto un incidente a Waterloo, fatto che non ha smorzato in me il desiderio di essere un novello Napoleone.
(...)La dignità del lavoro era per me la cosa più importante. Senza aver letto Carlyle o Kipling, formulai un vangelo del lavoro che avrebbe messo i loro in ombra. Il lavoro era tutto: santificazione e salvezza. Non potreste comprendere l’orgoglio che ottenevo da una dura giornata di lavoro. Ero uno fra gli schiavi salariati più coscienziosi che un capitalista avrebbe mai potuto sfruttare. Mostrarmi inoperoso agli occhi dell’uomo che mi pagava il salario era un peccato, in primo luogo, contro me stesso e in secondo luogo, contro di lui. Lo consideravo un crimine secondo solo al tradimento ma altrettanto malvagio. In breve, il mio individualismo eroico era dominato dall’etica ortodossia borghese. Leggevo giornali borghesi, ascoltavo i predicatori borghesi e non reagivo alle banalità urlate dai politici borghesi. Non dubito che se altri eventi non avessero cambiato la mia vita, mi sarei trasformato in un crumiro professionista (uno degli eroi americani del Presidente Eliot), la mia testa e le mie capacità di guadagno sarebbero state irrimediabilmente distrutte da un manganello nelle mani di qualche sindacalista militante.
Ma un giorno, di ritorno da un viaggio in mare lungo sette mesi, appena compiuti diciotto anni, pensai di cominciare a vagabondare per il mondo. Tra i bagagli dei treni merci abbandonai l’Occidente, dove gli uomini lottavano e il lavoro non mancava e cacciava l’uomo, mi avventurai verso i centri di lavoro industriali dell’Oriente, dove gli uomini erano inetti e cercavano lavoro. In questa avventura mi sono trovato a guardare alla vita da un punto di vista nuovo e completamente diverso. Ero passato dal proletariato a quello che i sociologi amano chiamare il «decimo sommerso», ed ero sorpreso di scoprire il modo in cui veniva reclutato questo sommerso.
Vi trovai ogni sorta di uomini, molti dei quali un tempo erano stati in buona salute come me, come le «bestie bionde»; marinai, soldati, operai, tutti lacerati e deformati dalla fatica, dal travaglio e dagli incidenti, alla deriva come cavalli alla fine della loro carriera. Ho mendicato, rabbrividivo con loro per il freddo sui carri merci e nei parchi pubblici, ho ascoltato storie di vita iniziate sotto i migliori auspici come la mia, con forza fisica pari o migliore alla mia, che si sono concluse sotto i miei occhi con lo sfascio e il risucchio nella parte più misera della fossa sociale.
E mentre ascoltavo queste storie ho iniziato a riflettere. Ero vicino alle donne di strada e agli uomini delle fogne. Ho visto l’immagine della fossa sociale tanto vividamente come se fosse una cosa concreta e li ho visti in fondo alla fossa, io sopra di loro, non lontano, appeso alla parete scivolosa con forza e sudore per non scivolare. Confesso di aver avuto paura. Che sarebbe successo quando non avrei avuto più le forze? Quando non sarei più stato in grado di lavorare al fianco di uomini giovani e forti? In quel momento decisi e formulai un giuramento simile a questo: «Ho sempre lavorato con tutte le forze, ma sono sempre più vicino al fondo della fossa. Uscirò fuori dalla fossa, ma non grazie ai muscoli del mio corpo; e non svolgerò più il lavoro duro e che Dio mi fulmini a morte se lavorerò ancora in modo duro, più di quanto il mio corpo possa sopportare o sia assolutamente necessario fare». E da quel momento mi sono dato da fare per sfuggire al duro lavoro.
Tra l’altro, durante un viaggio di circa diecimila miglia attraverso Stati Uniti e Canada, mi trovai a vagabondare alle Cascate del Niagara e fui beccato da un poliziotto borghese; mi è stato negato il diritto di difendermi, sono stato condannato a una pena detentiva di trenta giorni perché senza fissa dimora e senza mezzi visibili di sostentamento, sono stato ammanettato e incatenato a un gruppo di uomini nelle mie stesse condizioni, sono stato portato giù al paese di Buffalo e registrato presso il penitenziario di Erie County; mi hanno rasato la testa e i baffi e mi hanno vestito a strisce da carcerato, sono stato vaccinato obbligatoriamente da uno studente di medicina praticante, mi hanno fatto marciare incatenato e ho lavorato sorvegliato da guardie armate di fucili Winchester; il tutto per amore dell’avventura, come le «bestie bionde». Non ho altro da aggiungere sebbene possa affermare che questa esperienza ha attenuato il mio entusiastico patriottismo, abbandonando la mia anima. Ho compreso che per la mia vita uomini, donne e bambini erano più importanti delle linee geografiche immaginarie.
Ritornando alla mia conversione, penso sia evidente che l’individualismo rampante mi aveva abbandonato e che adesso dentro di me nasceva qualcos’altro. Senza saperlo ero stato un individualista e adesso ero un socialista inconsapevole di stampo non scientifico. Ero rinato senza cambiare nome e andavo in giro a scoprire cosa fossi diventato. Tornai di corsa in California e iniziai a leggere. Non mi ricordo quale fu la mia prima lettura, ma è un dettaglio irrilevante. Ero già quell’altro, qualunque fosse il mio nome; e con l’aiuto dei libri ho scoperto di essere diventato socialista. Da quel giorno ho letto parecchi libri, ma nessuno di argomento economico; nessuna dimostrazione lucida della logica e dell’inevitabilità del socialismo mi ha colpito così tanto profondamente e in modo talmente convincente quanto quel giorno in cui ho visto le pareti della fossa sociale crescere intorno a me fino a soffocarmi e io che scivolavo in fondo alla miseria più profonda.