Massimo Gaggi, Corriere della Sera 21/11/2013, 21 novembre 2013
KENNEDY E IL MITO SFIORITO DI UN’AMERICA PIÙ GIOVANE
Il castello di Camelot è sotto assedio: il luogo del mito di John Kennedy, costruito a tavolino dalla moglie Jacqueline poco dopo il suo assassinio, ha tenuto a lungo. Ma il piedistallo eroico sul quale è stato costruito si è inevitabilmente deteriorato anno dopo anno, man mano che la memoria del martirio si è allontanata nel tempo. Un processo filtrato attraverso migliaia di libri, documentari e film sulla stagione più entusiasmante e tragica della politica americana. I cento volumi arrivati nelle librerie alla vigilia del cinquantesimo anniversario di Dallas, i programmi che in questi giorni riempiono i palinsesti televisivi delle reti Usa, non hanno aggiunto molto alla storiografia della Casa Bianca e alle ricostruzioni dell’agguato mortale. Ma questa celebrazione è anche un momento di verifica e un’occasione per fare i conti con se stesso per un popolo la cui età media è 37 anni. Serve a conoscere un personaggio di cui molti ragazzi sanno solo quello che hanno studiato a scuola. Mentre per la generazione del baby boom e per i più anziani è un momento di riflessione su una figura che è stata gradualmente smontata davanti ai loro occhi.
Kennedy, il «re Artù» caduto mentre cercava di aprire la strada a un’era di pace nel mondo, mentre combatteva per l’eguaglianza e i diritti civili di tutti i cittadini americani? Molti giudizi storici sono stati rivisti e anche la sensibilità del popolo americano, è cambiata. Anche se Camelot affascina ancora. JFK rimane il leader che ha ispirato, dato fiducia, incoraggiato un’intera nazione. Ma è anche il presidente che, negli atti di governo, non ha lasciato grandi tracce: il disastro della Baia dei Porci (fallito attacco al regime castrista), l’ambigua condotta della guerra in Vietnam. E le incertezze sui diritti civili, che verranno conquistati successivamente sotto Lyndon Johnson: il presidente della «Great Society», il vero creatore, con Medicaid e Medicare, di quel poco che c’è di welfare negli Usa.
Anche per la crisi dei missili a Cuba che aveva portato il mondo sull’orlo del conflitto nucleare, il trionfalismo del tempo — l’Urss costretta a ritirarsi con la coda tra le gambe — è stato pian piano rivisto: Kennedy tenne duro e la spuntò, ma dovette fare grosse concessioni altrove (missili in Turchia). E forse Mosca decise di sfidare l’America perché Kennedy si era mostrato debole nel faccia a faccia con Kruscev al summit di Vienna.
La revisione dei giudizi critici è andata avanti per anni. Gli storici hanno depennato John Kennedy dalla hit parade dei più grandi presidenti. «An Unfinished Life», il saggio di Robert Dallek considerato il miglior ritratto del 35esimo presidente, è di 10 anni fa mentre il duro «Dark Side of Camelot» di Seymour Hersh è addirittura del 1997. Anche le spaccature della sinistra su Kennedy sono antiche: Noam Chomsky, icona radicale, non si è stancato di denunciare Kennedy come un guerrafondaio reazionario da quando, nel 1991, uscì «JFK», il film nel quale Oliver Stone offrì al mondo l’immagine di un presidente pacifista eliminato dalle forze del «complesso militare-industriale».
Un altro termometro importante, nel grande mare dei 40 mila libri sull’avventura umana e politica dei Kennedy pubblicati in questo mezzo secolo, è quello dei volumi scolastici di testo. Descritto nel sussidiario più diffuso nel 1968 come il presidente che «incarnò un’America giovane, progressista capace di guardare al futuro con fiducia e speranza», Kennedy è diventato, nelle revisioni successive, un personaggio sopravvalutato: un leader che voleva la pace ma si impegnò nella corsa agli armamenti esasperando il testa a testa coi russi. Uno che parlava molto di diritti civili, ma poi non li sosteneva con vigore e che si lasciò legare le mani dal Congresso.
La revisione dei giudizi si spiega in parte con l’emergere, anno dopo anno, di fatti inediti: gli audio registrati alla Casa Bianca e sull’Air Force One danno l’idea di un politico freddo e pragmatico. E le storie di relazioni extraconiugali contribuiscono a disegnare il profilo di un uomo dalla personalità divisa: metà politico saggio, prudente, metà donnaiolo spericolato, senza scrupoli. Che fosse molto sensibile al fascino femminile era noto fin dall’inizio, ma alla storia di Marilyn Monroe si sono aggiunte le relazioni con donne legate a boss mafiosi, forse con spie della Germania Est. E le umiliazioni inflitte alla moglie.
Ma fu proprio lei, Jacqueline, a spazzare tutto sotto un tappeto costruendo pochi giorni dopo la morte del marito la leggenda di Camelot (nome mai sentito prima alla Casa Bianca) affidata a un giornalista di Life appositamente convocato in casa Kennedy. Quella leggenda, consolidata dai saggi di Arthur Schlesinger e Ted Sorensen, i due più stretti collaboratori del presidente che consegnarono alla storia i ritratti di un grande progressista, è certo appannata, ma in buona parte viva. Ed è giusto così: Kennedy non ebbe il tempo di fare molto, ma la sua immagine giovane, resa eterna proprio dalla sua vita spezzata, la sua capacità di affascinare e persuadere hanno comunque cambiato l’America dandole fiducia e consapevolezza. Viene da qui l’energia che ha consentito di portare l’uomo sulla Luna sulla base di un impegno che Kennedy aveva preso «al buio», quando le tecnologie per realizzare quell’impresa nemmeno esistevano ancora. E Johnson ha potuto varare i diritti civili e le misure della Great Society scavalcando le resistenze del Congresso, proprio volando sulle ali della leggenda kennediana.